Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Film urticante e di volgarità incontrollata, un mondo di brutture si apre attorno a una creatura pura e la cambia per sempre.
Romanzo di formazione, pellicola iconoclasta, spietata rappresentazione del vero. E' operazione ardua incasellare Viridiana in una univoca chiave di lettura, perché troppo ambigue e soggettive e troppo attinenti alla sfera più intima dell'animo umano sono le tematiche svolte. La sensibilità dello spettatore diviene qui protagonista aggiunta. Ciascun occhio vede quello che si aspetta di vedere. Certo Viridiana, all'occhio più disincantato e disilluso appare come un film felicemente politically incorrect, nel suo dissolvere le nebbie della menzogna e dell'ipocrisia cristiana. La carità diventa vezzo esteriore per lavarsi la coscienza, che forse migliora (o fa sentire migliore) chi esercita l'atto di carità, ma non chi ne è beneficiario. E' invenzione borghese, la carità cristiana, che non appiana le disuguaglianze sociali, ma finisce per dilatarle: vorrebbe educare e redimere la feccia della popolazione, ed invece ne estrae il lato più belluino (o forse il più intimamente umano, laddove prima era presente solo l'istinto di autoconservazione). L'intervento di Viridiana sul gruppo di clochard porta solo morte, e violenza, e inerzia: la metamorfosi dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci nel rivoltante banchetto dei barboni strazia i concetti di comunione fraterna e amore per il prossimo, li banalizza a sepolcri imbiancati. Verrebbe da chiedere a Buñuel, o meglio, a chi del film di Buñuel ha portato una così feroce interpretazione, se il mondo in cui viviamo sia davvero un simile letamaio. Ovvero, porta sempre siffatta sventura provare a fare del bene al prossimo? E' davvero una perdita di tempo? Converrebbe lasciare tutto così com'è e pilatescamente disinteressarsene? La bontà e l'altruismo sono concetti superati, o sopravvalutati? Più serenamente, Viridiana potremmo vederlo come un romanzo di formazione doloroso e lastricato di sempre crescenti dubbi e domande. Viridiana, giovane casta, piena di amore verso Dio, e di entusiasmo per la vita, sperimenta con mano che cosa voglia dire essere davvero cristiani. Evangelicamente, significa essere mandati come pecore in mezzo ai lupi, e doversi guardare dagli uomini, e da loro essere odiati. Non è al sicuro delle mura del convento che avrebbe potuto impararlo. L'esperienza con i barboni, ma anche con lo zio, è uno choc per Viridiana, un battesimo del fuoco con la realtà. I valori cristiani non risiedono nei riti, o nel prendere un velo, quelle sono sovrastrutture imposte dall'uomo. Cristianesimo è avere a che fare col povero, col malato, col delinquente, e provare a salvarli, e fallire, e riprovarci. E c'è da scommettere che Viridiana, ormai accortasi della vacuità tragica del pregare e dell'atto esteriore autoconclusivo, diventata donna consapevole, riproverà a fare del bene al prossimo, in altro modo, ma ci riproverà. Esiste anche una terza via per penetrare il mistero di Viridiana. In fondo, la giovane viene strappata con violenza inaudita ad una prigione dorata e ad un rifugio sicuro, che fisicamente è rappresentato dal convento, e metaforicamente dall'insieme delle sue convinzioni e delle sue beate illusioni. Viridiana conosce l'orrore del mondo e il nero del peccato, esperisce la bramosia, la superbia, la lussuria, l'invidia, l'egoismo. Si immerge nella realtà, come se qualcuno le ficcasse la testa sott'acqua e ce la tenesse a forza. Sì, c'è anche della crudeltà nel modo in cui la giovane Viridiana è forzata, suo malgrado, a dover assistere al turpe spettacolo dell'uomo che mette in scena se stesso. In quello sciogliersi i capelli e guardarsi con civetteria allo specchio, c'è infinita tristezza. La purezza e il candore iniziale sono irrimediabilmente andati perduti.
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