Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Uno dei più grandi film di Buñuel, completamente girato in Spagna dopo un esilio più che ventennale: film scandaloso, crudele, ma che ancora, oltrepassati i quarant’anni dal tournage, ci interroga e ci fa riflettere.
Viridiana (Silvia Pinal) è una bella e giovane donna, che vuole farsi suora, né riesce a smuoverla dal fermo proposito Don Jaime, (Ferdinando Rey), suo zio, ricco possidente e vecchio vizioso, morbosamente attratto da lei.
Egli, anzi, ottiene, col suo torbido comportamento, di renderne ancora più salda la volontà: lascerà prima del previsto la casa di quello zio che aveva addirittura tentato di violentarla dopo averla narcotizzata.
La notizia del suicidio di Don Jaime, però, la indurrà a tornare sui suoi passi e a progettare diversamente il proprio futuro, senza tradire i propri ideali cristiani.
Ora, infatti, condivide con Jorge (Francisco Rabal), il figlio illegittimo - riconosciuto prima di impiccarsi - di Don Jaime, l’eredità della grande tenuta agricola, dalla cui rendita pensa di ricavare il denaro necessario a offrire migliori condizioni di vita ai poveri del luogo.
Due mentalità si fronteggiano nel film: quella di Viridiana, convinta che la ricchezza debba essere distribuita fra i poveri, amati da Cristo, innocenti portatori di valori positivi (anche se non rinuncia a organizzare autoritariamente i loro pasti e le loro notti nell’ala della casa che li ospita) e quella di Jorge, convinto che la proprietà terriera debba essere trasformata in azienda produttiva e che la grande casa – un tempo signorile e ora trascurata e in declino – debba diventare una magione prestigiosa. Ben deciso a mettere a frutto le potenzialità della terra che ora gli appartiene, il successo gli arriderà.
Viridiana, la cui esperienza fallimentare le avrebbe fatto acquisire una diversa consapevolezza, si sarebbe rassegnata alla sconfitta dei propri sogni, comprendendo che l’idealizzazione di quel gruppo di diseredati non teneva conto della realtà: i suoi poveri non erano diversi dagli altri uomini, né la sua elemosina caritatevole li aveva migliorati; semmai li aveva resi più ipocriti costringendoli a essere, almeno davanti a lei, diversi da quello che erano: oziosi profittatori, invidiosi, crapuloni, lussuriosi, pieni di pregiudizi, così violenti, da tentare di stuprarla, dopo le dissolutezze dell’ultimo banchetto a casa sua.
La fotografia, che avrebbe dobuto conservare il ricordo di quella cena, ricalca le pose e la disposizione strutturale dei personaggi dell’affresco dell’Ultima cena leonardesca, rovesciandone il significato, essendo la figura centrale di Cristo, sostituita da quella del mendicante cieco, che non sa orientarsi senza l’aiuto degli altri mendicanti, che vogliono mostrargli l’infamia che si stava consumando ai suoi danni.
Questa scena e le ultime del film, che rappresentano il falò col quale la donna brucia gli oggetti del suo bagaglio religioso, ormai inservibile, hanno fatto gridare allo scandalo e alla blasfemia, procurando al regista strascichi censori in Spagna al tempo della dittatura franchista, ma anche nell’ Italia degli anni ’60.
Il film, in verità, con gli stilemi e i simboli del grande regista, sintetizza molti temi e percorsi culturali che avevano attraversato la cultura europea dalla seconda metà dell’800: dalle riflessioni anarchiche, a quelle socialiste, da quelle freudiane sul sogno a quelle nietzscheiane sul dionisiaco, che, rielaborate da Bréton, avevano dato origine al movimento surrealista.
L’indubbia carica eversiva, rispetto alle convinzioni consolidate diventate luoghi comuni, che è tipica di tutta l’opera del regista, in questo importantissimo film è fonte inesauribile di invenzioni e citazioni, per le quali Buñuel si avvale anche della cultura figurativa spagnola tradizionale, quella dei picari, dei “Borrachos” di Velasquez o dei grotteschi personaggi dei Capricci di Goya, totalmente rielaborati, però, in un originale linguaggio filmico.
Come in Nazarin, dunque, la cecità (intellettuale), aveva impedito al verbo cristiano – che non si rivolge agli uomini come sono, ma come sarebbe auspicabile che fossero – di proporsi come messaggio liberatorio
Vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1961, suscitò una così violenta reazione della Chiesa, e della censura spagnola che il regista preferì allontanarsi da Madrid, dove tornò solo dopo la morte di Franco.
L’opera si salvò dalla distruzione completa perché la quota di maggioranza della produzione era messicana.
L’uscita italiana del 1963 fu seguita da sequestro e denuncia, ma il film fu successivamente riconosciuto come opera d’arte e assolto.
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