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Fuorigioco

Regia di Carlo Benso vedi scheda film

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La recensione su Fuorigioco

di latinsmile
8 stelle

Un intricato gioco di specchi tra l'illusione di una trasformazione e la spietata realtà.

Fuorigioco. In senso calcistico è quando un'azione s'interrompe e quando si riparte dal senso inverso rispetto a chi stava attaccando. Il giocatore in questo senso, si trova in un limbo: una zona dove a conti fatti, è libero. Libero di essere, anche solo per un attimo, se stesso. In questa zona neutra, lì dove il gioco non è più tale, anche le regole perdono il loro senso. C'è un attimo in cui il giocatore tira il fiato e si accorge che tutto attorno a lui: il campo, gli antagonisti, i compagni di gioco, gli spettatori, fanno tutti parte di un gioco. Ogni riferimento a Kafka è puramente voluto, qui il protagonista ha però una opportunità: quella di accorgersi, cioè di correggere il proprio punto di vista e di osservare se stesso da un'altra prospettiva, cercando di trasformare se stesso indirizzandosi verso un possibile cambiamento. Purtroppo non se ne accorge e da questa zona, egli si sente perduto. Non c'è più ripartenza. Film coraggioso che sicuramente soffre dei pochi mezzi con cui è stato girato, ma genuino e soprattutto onesto dal punto di vista artistico e anche concettuale. Strade e rumori di fondo infuocati, rendono l'ascolto impossibile delle voci positive all'interno di sé, quasi a dire che il mondo interiore a volte è separato proprio da una percezione sbagliata dell'esterno. La routine del gioco si interrompe. il lavoro di una vita si blocca. Il nostro gruppo, la scusa che ci separa dalla parte originale si allontana e non coglie l'occasione di rinnovare ogni cellula portandola verso una nuova comprensione possibile: un mondo nuovo. L'azienda innominata  assume i contorni di una grande chioccia a cui voler tornare.  Un'azienda madre padrona, perfetta rappresentazione di una legione invisibile che diventa solo una scatola inutile a cui, come pedine inanimate, voler tornare e dove una volta fuori, lo scopo perde la sua estrazione più normale: quella che tutto ha un inizio e una fine a cui sottometersi.

L'inizio è prevedibile, la fine no. La trasformazione plausibile del personaggio Gregorio, interpretato da Garrani con placida convinzione e ammirevole sobrietà d'attore intelligente, non avviene mai. Essa viene tesa come una corda che è incapace di spezzarsi, così come un centenario che si è affezionato alla vita e preferisce viverla così, senza più uno scopo se non quello di dare un respiro dopo l'altro e spiare ciò che gli sta più vicino e per questo irraggiungibile, forse solo il corpo di una ragazza, vista attraverso le pareti di un'altra dimensione, una finestra di fronte di tanti secoli fa, restituita a un presente fatto ormai solo di ricordi di passato non vissuto, un involucro che assume quasi i contorni di una vendetta sul tempo di una vita sbaglaita perché assuefatta all'impossibilità di realizzare il proprio sogno per la mancanza di esso. Perché nella vita, non c'è niente di peggio, cristianamente parlando, che seppellire il proprio talento sacrificandolo per il sogno di altri. Buon esordio di un quasi sessantenne, controcorrente, decisamente fuorigioco, quasi prevedendo il destino della sua opera, facile bersaglio per quella critica sprecona che si perde l'occasione perlomeno di tacere, su qualcosa che non potrà mai giudicare per mancanza di giudizio e di occhi per vedere.

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