Regia di Marc Brummund vedi scheda film
Storia vera. Wolfgang, ragazzo ribelle, viene spedito in un riformatorio tedesco nel 1968. Un film duro, ma ottimamente interpretato e fedele allo spirito del suo tempo.
Germania 1968. Wolfgang, orfano di padre, è un adolescente ribelle come migliaia di suoi coetanei, ma disgraziatamente entra in conflitto con il nuovo compagno di sua madre e finisce con l’essere affidato ad un istituto. All’epoca, si parlava di riformatori o case correzionali per indicare veri e propri lager con disciplina militare della peggior specie, un personale costituito da sadici torturatori, lavori forzati e angherie di ogni genere, il tutto sotto l’assistenza e la complice condiscendenza delle gerarchie ecclesiastiche. Un inferno nel quale il protagonista è inizialmente vittima di episodi di bullismo, per poi riuscire a farsi valere e apprezzare, a creare legami di solidarietà. Dopo alcuni mesi, esasperato dalle continue vessazioni da parte dei suoi carcerieri, Wolfgang riesce a fuggire. Tornato a casa, viene immediatamente riaffidato all’istituto per volontà del patrigno, al quale la madre non riesce ad opporsi. Per il ragazzo è una ferita più profonda di quelle subìte nel corpo e nella mente durante il suo internamento. Dopo altri due anni di reclusione con il suo corredo di vessazioni e sofferenze, il patrigno di Wolgang muore. Quest’ultimo può finalmente tornare a casa, ma è troppo tardi. Con pochi spiccioli in tasca, sale sul primo treno che capita e si avvia verso una nuova vita.
Quale vita non saprei dire, ma resta il fatto che si tratta di una una vicenda realmente accaduta, raccontata da un ex-recluso del riformatorio. Il film è un pugno nello stomaco nella parte che descrive la vita quotidiana nell’istituto. La violenza è onnipresente, non solo da parte degli aguzzini, ma anche all’interno della camerata. La tensione, palpabile dall’inizio alla fine, ricorda grandi momenti di cinema visti in capolavori come “Papillon” di Franklin Schaffner (1973) o “Fuga da Alcatraz” di DonSiegel (1979). Qui, siamo di fronte ad una produzione molto più modesta, ma di sicuro valore in virtù di splendide interpretazioni, di una regia con i fiocchi e di un’abile ricostruzione di tempi e luoghi. I tempi sono quelli del ’68. Contestazione e movimenti di liberazione all’esterno, regime autoritario e repressione tra le mura del riformatorio. Il vento dell’epoca passa attraverso quelle mura, i ragazzi si aggrappano ad una radio a transistor per ascoltare “The House of the Rising Sun”, intonano “Freedom” di Richie Havens (Woodstock... qualcuno la ricorda?) in una tesissima scena di protesta corale contro i loro seviziatori.
Il film dello sconosciutissimo Marc Brummund è passato a dir poco inosservato e me ne rammarico. Denuncia un fenomeno di cui non possono andar fiere le nostre moderne democrazie. Basti pensare al fatto che l’istituto “Freistatt” (titolo originale del film) è stato chiuso solo nel 2010.
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