Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film
L’ultima fatica dell’apolide imprevedibile Skolimowski pare l’opera di una giovane leva, non quella di un veterano, anche per l’abuso (sia pur giustificato nel contesto tematico) di ogni moderna tecnologia di ripresa che avvicina consapevolmente l’estetica del film a quella pubblicitaria (con la premeditata complicità dei due direttori della fotografia, che inondano di luce il set e stagliano bidimensionalmente le figure umane su sfondi opachi).
L’andirivieni temporale e lo scandaglio cubista dello spazio (una moderna metropoli che, a parte l’uso dell’idioma polacco, pare di fatto un luogo senza precisi connotati storici, geografici e culturali) sono in linea con il cerebralismo un po’ compiaciuto dei mind-game movie anglofoni degli ultimi 25 anni, mentre lo stile ovviamente è all’europea: poche parole, ironia sotterranea, digressioni che valgono come commenti registici secondo la più classica delle “politiques des auteurs” (quelle vertiginose panoramiche a 360 gradi che resero “Deep End” un capolavoro mezzo secolo or sono, ma anche bizzarre genialate come la soggettiva dal cane), tendenza a trasformare il narrato in sinfonia di rime visive, la prosa in poesia.
E proprio qui stanno i problemi del film, che ne compromettono l’intensità, rendendolo un oggetto poroso, altalenante. Da una parte c’è lo script a prova di bomba, geometrico, che un regista statunitense (un Fincher, per dire) avrebbe forse saputo trasformare in un gioiellino di ritmo e suspense; dall’altra c’è la regia che è quella di un disincantato cineasta europeo che vuole servirsi delle immagini per dire la sua sui tempi che corrono. Queste due dimensioni non sempre collaborano, perché la forza centripeta di una scrittura che erige un castello di informazioni complesse e dettagliate non sempre si bilancia con quella centrifuga di una direzione che sa iniettare leggerezza, distacco e stilizzazione in ogni fotogramma.
Quello che salva il film e che ne esplicita platealmente il senso è il finale, un’esuberante, enfatica, “sorrentiniana” danza condotta a ritmo post-rock. Nessun pathos nella pirotecnica catena di eventi tragici che coinvolgono personaggi con cui non abbiamo nemmeno fatto a tempo ad empatizzare, ma solo la messa in scena plastificata ed estetizzante di un Tempo (e di un Caso/Destino...perchè sarà pure “apolide” Skolimowski, ma è nato nello stesso Paese di un certo Kieslowski) che non si può fermare né sconfiggere, ma solo manipolare, scomporre, osservare mentre si declina nelle varie forme che la moderna tecnologia dell’immagine mette a disposizione, dai “mobili” smarthpone dell’incipit alle statiche telecamere di sorveglianza degli excipit, due volti complementari della stessa civiltà audio-visiva.
Il film è stato programmato da Fuori Orario, in prossimità del ventennale dell’11/9. Sicuramente non è stato intenzionale, ma ho ragione di credere che la filosofia dello sguardo onnipresente (ma per nulla onnisciente) e “poliscopico” (se esiste questo termine) sugli eventi in corso, che è tema-cardine di questo film (e della nostra epoca), abbia avuto origine da quell’irremovibile trauma mediatico globale che fu la visione in diretta del crollo delle Torri, con tutto il suo portato emotivo ed ideologico.
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