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Vieni avanti cretino

Regia di Luciano Salce vedi scheda film

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La recensione su Vieni avanti cretino

di scandoniano
8 stelle

Stracult assoluto, figlio della sagacia di Salce e della bravura di Banfi (qui in stato di grazia). Alle spalle una buona ricerca nella radici della nostra comicità. Per qualcuno nulla di originale, per tantissimi un film mitico, da scompisciarsi.

“Vieni avanti cretino” è un piccolo, grande cult. Diciamo pure che Fantozzi, nel suo moto di ribellione al feroce usurpatore Guidobaldo Maria  Riccardelli de “Il secondo tragico Fantozzi", avrebbe potuto annoverarlo senza fallo tra i cult assoluti del popolo ribelle. O che Marco Giusti, più che una puntata sui film (s)cult, avrebbe potuto tirarne fuori un’intera stagione. Le motivazioni sono innumerevoli.

Innanzitutto Banfi è in stato di grazia. Duetta con numerosi attori (Alfonso Tomas, Michela Miti, Gigi Reder, Luciana Turina, Franco Bracardi) stabilendo un feeling perfetto con tutti. Ma soprattutto dà vita ad una serie di gag e battute che sono entrate nel mito. Che poi, tecnicamente, si possa parlare di umorismo da barzelletta blu, di sceneggiatura rabberciata (ogni cambio di scena è una sorta di sketch teatrale a sé stante), oppure di situazioni già viste è tutto vero e sacrosanto. Ma in “Vieni avanti cretino” risiede tutto l’estro e la bravura di Lino Banfi, nonché uno stile, conferito dal regista Luciano Salce, che è decisamente fuori dall’ordinario ed inusuale per i filmetti pecorecci coevi (assistiamo a sottotitoli fumettistici che vorrebbero doppiare lo scambio di battute in pugliese, un citazionismo fluente, un incipit meta-cinematografico, un finale surreale).

 

 

Vedere Banfi che duetta a distanza con Franco Bracardi, provando ad interpretarne le (scarse) doti da mimo pur di non tradirlo al cospetto della moglie, che sospetta della buona fede del marito, è una goduria inarrivabile. Assistere al protagonista che scambia uno studio dentistico per una casa d’appuntamenti, con relativa nascita di equivoci, in una gara di bravura con Gigi Reder giocata sui doppisensi è qualcosa di geniale (che non si vedrà a questi livelli di perfezione nel nostro cinema fino al “Johnny Stecchino” del premio Oscar Benigni). Ammirare il personaggio di Banfi che si muove roboticamente e sfida in bravura il fenomenale dottor Tomas (Alfonso Tomas) nell’episodio della ditta di elettronica non ha pari. Gli altri episodi (al bar del signor Gargiulo, dove scambia i discorsi di una coppia per particolari ordinazioni di caffè, al colloquio come guardiacaccia comunale, all’autorimessa con l’avvenente Michela Miti, col prete pugliese che lo prende a schiaffoni, al locale dove si canta ispanico-pugliese o con la mastodontica padroncina del cane scomparso) sono inferiori ma pur sempre divertenti e non scontati.

Un cult a tutti gli effetti, che dietro la scrittura grossolana se non addirittura inesistente cela un lavoro  filologico di ricerca approfondita nelle radici della comicità nostrana (da Plauto all’avanspettacolo, passando per la commedia dell’arte). Un film ineguagliabile.

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