Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
L’immagine d’apertura dell’ultima fatica di Almodóvar (senza più Pedro) è il dettaglio di un drappo di seta color rosso fuoco la cui forma ricorda quella di una sacca dalla consistenza leggera ed elastica, che l’occhio coglie in un lento movimento di dilatazione e contrazione scandito da intervalli di tempo regolari.
Per pochi istanti l’immagine appare enigmatica, poi, comprendiamo: qualcuno sta respirando e quella sacca rossa vuole rappresentare il suo cuore che batte.
Il cuore della protagonista Julieta.
Di lì a seguire, per tutto il film, ogni momento, ogni scena di Julieta saranno contraddistinte dal colore rosso (e sfumature) [un semplice dettaglio che può spaziare da un capo d’abbigliamento al manico di una borsa, agli accessori più disparati, da un origami a una parete di casa, dallo smalto per le unghie alla tinta dei capelli], cromatismo che meglio aderisce alla poetica del regista-autore manchego, fatta di storie di donne comuni -madri, mogli, amanti- o di creature, indipendentemente dal sesso di appartenenza, dalla spiccata sensibilità femminile, e il loro stato emozionale in perenne, convulso turbinìo: sofferenza, tradimento, abbandono, distacco, solitudine, disillusione, amarezza, devastazione. Sentimenti vissuti così intensamente da oltrepassare la barriera dello schermo regalando allo spettatore la sensazione di annegarvici dentro.
Vite ordinarie, dunque, vissute visceralmente, delle quali Almodóvar s’impegna a vivisezionarne le dinamiche, punteggiandone i sottili, spesso atroci, meccanismi che ne governano l’andamento.
Riservando al fato un ruolo rilevante, intendendo la morte non solo come fine irreversibile ma come motore primo, inatteso deus ex-machina per eventi che da essa scaturiranno e si dirameranno in complessi, intricati, seducenti arabeschi.
Riuscendo a sublimare il quotidiano messo in scena, che di speciale ha la verità tragica dell’esistenza.
In Julieta, nell’avvicendarsi delle situazioni meticolosamente inanellate, accanto al rosso, si nota, come seconda presenza costante, il blu (e sfumature).
Se il colore del sangue può essere associarlo allo slancio vitale, all’energia, alla passione, all’ardore, alla giovinezza nella sua irruenza ed impulsività, quello del cielo, del mare rappresenta la pacatezza, l’introspezione, la sensibilità, la profondità del sentimento.
Il silenzio, la contemplazione.
Ma anche la fedeltà, la dolcezza, la tenerezza, la grazia, virtù attribuite al lato femminile dell’essere umano.
E proprio il suo rappresentare l’acqua, origine della vita, simboleggia, altresì, maternità.
Julieta vive, perciò, in un’impetuosa stabile armonia di rosso e di blu, come cullata dalle acque del mare, ora placide ora agitate, sospesa nel perfetto equilibrio tra ciò che, a fasi alterne, chiama “talassa” o “pontos” (in greco antico termini per indicare la rispettiva natura, calma e tumultuosa, del mare).
Finché nella sua vita irrompe prepotentemente il nero.
La negazione del colore, la perdita, la conclusione definitiva (di un ciclo) dell’esistenza.
Il limite assoluto oltre il quale nulla s’intravede.
La rinuncia, la capitolazione completa o l’abbandono.
La depressione. Il senso di colpa.
La muta protesta contro una realtà paralizzante e soffocante, che non può non sfociare in reazioni di rabbia e ribellione.
Il rosso, il blu ed il nero forniscono un eloquente mappatura della personalità di Julieta e ci parlano della sua vita (e di chi le è accanto), dai vent’anni ai cinquanta, simile a tante altre, eppure, a suo modo, unica, fatta di improvvisi scossoni e sbalzi in avanti come di lenti, inesauribili momenti di stasi e di passi a ritroso.
Prigioniera, come tutti, della ciclicità degli eventi, del loro inesorabile ripetersi, nonostante -o proprio perché- sia stato fatto il possibile per scongiurarne il ritorno. Il riferimento è a quel misterioso, irrazionale fenomeno dell’esistenza inteso al pari di un invisibile morbo virulento o di una tara genetica ereditaria, trasmissibile senza salti di generazione da madre in figlia.
Una condanna. Una croce sotto il cui peso si spezzano proprio gli abbracci che si credevano più solidi e indissolubili, ma che, successivamente -come per sistemare le cose, riparare ad un torto inferto, ristabilire un equilibrio andato perduto- provvede a ricomporre i pezzi, cementando legami ancora più forti, profondi e duraturi di una volta.
Almodóvar, sceglie di affrontare la storia di Julieta lavorando per sottrazione, eliminando, cioè, eccentricità ed enfasi che sono stati inconfondibile cifra stilistica per gran parte della sua carriera.
Ne viene fuori un’opera raccolta, di meditazione, i cui ritmi dilatati e i toni raffreddati scaturiscono, probabilmente, da un nuovo stato delle cose raggiunto, dalla consapevolezza, da parte dell’autore, fornitagli dall’età matura che avanza, di aver acquisito un diverso (per nulla disprezzabile) modo di osservare e tradurre la realtà, fatto di maggiore sobrietà e compostezza (se così si può dire), meno fiammeggiante in superficie ma ugualmente vibrante nella sostanza.
Quasi a voler comunicare allo spettatore che, adesso, la sua dirompente parte rossa non sarà più così centrale, ma lascerà maggiore spazio alla posatezza di quella blu.
E questo gli ha permesso di lavorare sulle sfumature della dolente condizione umana con lucidità notevole.
Julieta somiglia a un dramma da camera, che si muove felpato nel suo essenziale, elegante rigore formale.
Da qui si può spiegare la scelta dell’autore di Parla con lei di concludere la pellicola in punta di piedi, in modo sommesso ma non per questo conferendogli un significato meno profondo.
Un epilogo ‘aperto’ che, oltre la sua apparente inconsistenza, rappresenta (per la protagonista e anche per lo stesso Almodóvar) un nuovo punto di partenza, un nuovo percorso su cui incamminarsi, sebbene sia (per lei e per lui) ancora tutto da definire, ancora tutto immerso in una fitta coltre nebulosa. Tra esitazione e determinazione.
Nella scena conclusiva, infatti, Julieta indossa un maglione color magenta, il colore della decisione, potremmo dire della svolta.
È anche uno dei tre coloranti usati per la sintesi dei colori in fotografia e nel cinema: da
leggere come un omaggio al cinema a colori?
Di cui Almodóvar è uno dei più alti esponenti contemporanei.
Nasce come gradazione del viola, che appare in alcuni momenti della pellicola, pigmento intermedio tra il rosso e il blu e, perciò, sintesi perfetta tra i due cromatismi.
Indice di tormento, di penitenza e ancora di metamorfosi, transizione, guarigione.
E simbolo dell’ottimismo dinamico, perché rappresenta quella condizione ‘magica’ dell’esistenza capace di rafforzare la volontà nel concretizzare ciò che a lungo si è così fortemente desiderato.
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