Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Jesse (Elle Fanning) è una sedicenne che si trasferisce a Los Angeles per tentare fortuna nel mondo della moda. Con l'aiuto di Dean (Karl Glusman), un giovane fotografo dilettante, riesce a fare il suo primo servizio fotografico. Qui viene subito notata da Ruby (Jena Malone), una truccatrice che la presenta ad altre due modelle già famose nell'ambiente, Gigi (Bella Heathcote) e Sarah (Abbey Lee). La bellezza naturale di Jesse riscuote subito successo nel mondo della moda, l’importante agenzia per modelle di Roberta Hoffman (Christina Hendricks) la mette sotto contratto senza esitare un attimo. Quanto basta per accendere le invidie accecanti di Gigi e Sarah, che insieme a Ruby circuiscono Jesse per renderla partecipe delle loro insane aspettative. Le due modelle desidererebbero avere la sua bellezza verginale, la truccatrice vorrebbe possederne il corpo immacolato. Sarebbero disposte a tutto pur di ottenere ciò che vogliono, anche a “vestire” di sangue i propri desideri. Insieme a loro, Jesse comprende quanto alla bellezza del corpo non corrisponda quella dell’animo. E quanto possa essere competitivo e violento il bel mondo dell’alta moda.
Il cinema di Nicolas Winding Refn è sempre stato attraversato dall’idea che la violenza rappresentasse un inevitabile motore sociale. “Valhalla Rising”, ad esempio, insieme ad essere il punto culminante di quella che, col senno del poi, si può tranquillamente definire la prima parte della sua carriera “danese”, assume anche le vesti del suo “Gangs of New York” di scorsesiana memoria, ovvero, la messinscena dell’idea che ogni civiltà costituente sorge sul sangue versato
di violente guerre “fratricide”. Così è continuata la carriera di Refn anche durante le successive produzioni statunitensi, con la violenza a fare capolino dentro le sue storie. Almeno fino a “The Neon Demon”, dove però, la violenza non è la risultante esplicita di pratiche criminali o di azioni indirizzate dall’esigenza di un individuo di difendere l’incolumità della propria vita, ma è insita nella ricerca ossessiva della bellezza e della perfezione estetica delle forme, una ricerca concepita come l’anticamera più prossima all’inevitabile perdita dell’innocenza. Refn non usa mezze misure nel trasformare il mondo dell’alta moda in una sorta di Jungla senza vie d’uscita, dove occorre mostrare gli artigli se non si vuole soccombere, assecondare l’indole ferina che è nell’animo di ogni arrampicatore sociale se si vuole emergere. In questo mondo, la bellezza diventa un incubatore di violenza repressa, più se ne tiene e più se ne vuole ancora, più si vivono le luci della ribalta e meno si sopporta di vederle spegnersi in fretta. La bellezza altrui adombra la propria, genera invidia piuttosto che ammirazione, comparazione di forme non complementarità di stili, ansia di primeggiare ad ogni costo non voglia di esserci e basta. Essere messa in coda, anche solo ad un’altra, viene vissuto come il tramonto definitivo dei propri sogni di gloria, una cosa che capita sempre troppo presto per poter essere accettata con pacifica e sportiva rassegnazione. Nessuno è come appare in questo mondo, ognuno sembra nascondere un proprio particolare segreto, custodire un malefico piacere a vivere nell’intrigo, a lasciarsi coinvolgere nei ricatti. Con una propensione istintiva alla cattiveria che è mitigata solo dall’esigenza funzionale di doversi presentare come degli angeli in cerca di un meritato successo. Tutti sono divorati dal demone della bellezza, tranne Jesse, che vive il mondo della moda con candida naturalezza, semplicemente come un’occasione di lavoro. Ma è proprio la sua ingenua inconsapevolezza ad agire per contrasto sulla smania di primeggiare delle altre modelle, che devono lavorare molto per ottenere ciò che Jesse possiede di suo per natura. Gli basta un attimo per vestire di una luce nuova gli occhi di chi è ormai abituato ai bagliori suadenti di un ben architettato paradiso artificiale. La sua bellezza “al naturale” smaschera sul nascere tutti i possibili inganni, affascina fin da subito chi credeva di non poter più catturare con uno scatto il volto più autentico della bellezza. Almeno fino a quando il corpo di Jesse non sarà reso un oggetto da addomesticare a comando, una cosa dalla forma magniloquente ma dalla sostanza massificata. Un oggetto omologato, da esibire e basta, privo di qualsiasi slancio di autonoma vitalità. Una sorta di bella dormiente soggiogata da pericolosi istinti mortiferi (può mai essere un caso che Ruby presti il suo talento di truccatrice sia alle belle facce delle modelle che a quelle inespressive dei cadaveri di un obitorio ?).
Nicolas Winding Refn giunge a queste conclusioni non investendo tanto sul solo aspetto narrativo, ma architettando una messinscena che si fa palcoscenico emblematico del mondo globalizzato, dove l’effimero corrompe l’innocenza e la forma annichilisce la sostanza ; dove lo spirito di competizione è la regola verso cui tendere per rimanere a galla e dove le aspettative rimaste inevase possono degenerare nell’esplosione rabbiosa delle delusioni. Le luci e i colori agiscono come fattori riflettenti dell’essere e rimanere belle ad ogni costo, ricalcando un’estetica televisiva che investe quasi tutto sul culto dell’immagine, sul consumo veloce della novità immessa sul mercato e sulla fascinazone di corpi che tendono al perfettibile. Squarciano la liquidità accertata del mondo contemporaneo per donargli la sensazione effimera il essere al centro di tutto : la pietra angolare da cui far derivare ogni opportunità di riscatto sociale.
“The Neon Demon” è un gran bel film, a me ha ricordato abbastanza “The Canyons” di Paul Schrader, anch’esso “divorato” dall’ossessiva ostentazione del bello e dalla vacua estetizzazione dell’esistenza. Due film che riflettono sulla mutevolezza continua dell’immaginario attraverso l’estetica delle immagini. Entrambi dominati dalla presenza ricercata di una luce patinata, che basta da sola a svelare tutta l’artificiosità “mummificata” che scaturisce dai contenuti cinematografici : lussureggiante è imbevuta dei bagliori “losangelini” nel film di Schrader, opaca e tendente al claustrofobico in questo di Refn. Ma se il primo mostra di più la scorza esteriore di una società anaffettiva che parte dallo svuotamento di senso dei sentimenti reali, l’autore danese affonda di più i bisturi dentro il ventre molle del mondo, legando quella crisi dei sentimenti a una percepibile sensazione di morte. Facendo del Cinema il luogo più appropriato per veicolare attraverso l’uso sapiente della macchina da presa, e partendo da un ambito particolare, riflessioni ragionate sulla più ampia crisi dei valori.
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