Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
La bellezza e la sua dissoluzione, scarnificazione, desertificazione. La bellezza come ossessione totalizzante che ammanta di sé il mondo e apre le porte degli altrui pensieri, sino al limite e sino alla fine, al momento in cui essa si svela per l’inganno e per il concetto finito che è e mostra, antropomorficamente, sangue e viscere, frattaglie e lacerti di antico fulgore. Sta a chi resta coglierne i residui afrori, e letteralmente introiettarli, alla ricerca di un miracolo di leggiadria che si rinnovi, in una metempsicosi di grazia onirica e disturbante. Winding Refn non si smentisce, con la sua poetica che verga quadri di dolcezza e svia paure e confusioni, pronti a covare sotto la cenere e ad esplodere in deliri di insostenibile fragore. Come e più che in Drive, The Neon Demon parte piano, alla ricerca di un ritmo che consenta ovattati riposi in chi guarda, pronto a farsi rapire dalle atmosfere e dalla perfetta, matematica commistione tra musica immagini e parole (il driver che porta in macchina la famigliola al ritmo di A real hero, Jesse perduta e spaurita nel suo mondo nuovo ed immersa in un clamoroso bianco -non a caso- virginale, memento del passato e del presente, monito per il futuro). Quindi la rapida deviazione, lo scavo nel carattere dei personaggi, alla ricerca delle più buie inclinazioni, la storia che si avvolge su se stessa, si raggomitola e si dipana di nuovo, stavolta in un’orgia di cavernose esternazioni, culminanti nella consueta tavolozza di colori rosso sangue. La bellezza non esiste, e se esiste fa male. A tutti senza esclusioni: a chi la possiede ed a chi la guarda con voluttà lontana, umana invidia, misera accondiscendenza.
The Neon Demon parte piano, si diceva. Ma, poiché Refn ha il ritmo nel sangue, e nella mente il talento di costruire inquadrature e scenografie quasi oppiacee, per capacità di scatenare deliqui senza parossismi, parte bene. Come un romanzo di formazione in luoghi che non hanno nulla di oxfordiano ed invece insegnano a dibattersi tra squali e squallori; come il racconto di una parabola esistenziale molto moderna (il mito del successo, la gradevolezza fisica come leva pitagorica e passe-partout verso i sogni) ed a suo modo intrinsecamente romantica; come un girotondo sulle amicizie che nascondono perenni secondi fini, gli amori teneri e romantici impossibilitati a durare quando lo show-biz decida diversamente, le occhiate degli altri, le virtù, i compromessi e la lotta tra entità così contrapposte. Parte bene, e finisce male, ad uno sguardo superficiale. La morte che permea ed invade la innocenza dura a morire, appena intaccata dalla acquisita consapevolezza di sé, eppure ancora impettita, come sentinella in un’anima forse irrimediabilmente provinciale e destinata alla sconfitta. Ma, a ben guardare, chi resta, i vivi, coloro che sacrificano il loro stesso oggetto del desiderio (trasversalmente asessuato, in quanto la bellezza, questa bellezza, avvolge di sé tutto, in una specie di valle di dolore in cui il sesso è soltanto il tentato approccio del proprio corpo alla proiezione di un se stesso migliore e diverso) sono destinati ad una morte in terra non meno terribile, nel delirio di perfezione che asciuga e prosciuga (la morte si sconta vivendo, direbbe un odierno Ungaretti in trasferta losangelina). Anime cannibali (e non in senso metaforico, dice tremendamente Refn), inquiete e spiritate, belle di una bellezza che si dissolverà passo dopo passo e che condurrà all’harakiri, del corpo ma anche dell’anima.
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