Regia di Tim Miller vedi scheda film
Sboccato e scorretto, il personaggio di Deadpool, dopo una fugace apparizione in Wolverine: Origins, si merita un intero film, collegato alla lontana al franchise dei mutanti (Colosso e “Testata mutante megasonica” vi appaiono come figure di contorno) ma sostanzialmente autonomo. Deadpool, all’anagrafe Wade Wilson, è in fatti un mutante coatto, non nato col gene X (quindi restio ad entrare nella crew del professor Xavier) il quale è stato invece provocato da lunghe sedute di tortura e di privazione per scatenare la reazione del corpo. Deadpool non è nemmeno propriamente un eroe poiché uccide, spesso volentieri e con applicazione sadica, ed è un mercenario senza rimorsi. Superumano sui generis, Deadpool è quindi un super antieroe che si veste come Spiderman, da cui eredita anche la parlantina, virandola però in vivace scurrilità, che ha il potere rigenerante di Wolverine (e la stessa tendenza ad usare le maniere forti e spicce) ma non fa parte di alcun supergruppo e, più che per il generico bene, parteggia per se stesso.
Il film, in effetti, rispetta l’impostazione del personaggio con una struttura eminentemente verbale, che non lesina su un fraseggio greve e sulla violenza spudorata di un killer prezzolato. Ma l’esasperazione della ferocia è talmente spinta da rendere Wilson un clown sardonico, e la vicenda personale fa del film la tragedia di un uomo ridicolo. Perché Wade, eterno bambino vizioso, si trasforma in uno pseudo-mutante cercando un rimedio al cancro che, inaspettato e fulminante, lo divora mentre assaporava la prima parvenza di felicità. Ed è per amore che egli si prova ad evitare alla donna che adora il dolore di una sofferenza riflessa, rimanendo incastrato dall’illusione di una guarigione fittizia e degradato dall’effetto collaterale che ne deturpa il corpo. Perché il cancro, associato al fattore rigenerante mutante, causa una situazione di instabilità cutanea che lo ricopre di tessuto cicatriziale (e ne altera anche la sanità mentale, elemento però trascurato dal film). Ed è proprio nell’amore per la donna, prostituta assai disinibita, che Miller si discosta dalla matrice fumettistica e conferisce al personaggio una profondità inedita e una motivazione valida per l’azione del film che, infatti si risolve tutta in un unico movimento vendicativo, nella ricerca - in due atti – del responsabile della sua condizione attuale, inframezzata da inserti in flash-back sulle origini in ordine cronologico, che ripercorrono la sua storia dall’innamoramento alla catastrofe. Questa indebita profondità di Deadpool trasforma il film, vicino stilisticamente alle vignette originarie, violente e volgari, irriverenti e scabrose, sanguinolenti ed esasperate, nella farsa di un uomo tragico, motivandone le azioni e, così, giustificandone anche la violenza, pertanto quasi moralizzata, limando però l’elemento spudoratamente eversivo del personaggio ne ne costituisce la caratteristica più peculiare.
Ne risulta comunque un film gradevolmente demente (doppiato in modo insensato in italiano, con l’accento inglese dell’antagonista da manuale di cattiva traduzione) che gioca di continuo con lo sfondamento della quarta parete per rivolgersi direttamente allo spettatore, per spettegolare sulle qualità di Reynolds attore (decisamente attratto dai supereroi, dopo l’infame Lanterna Verde, giustamente evocato), per fare continue allusioni sessuali e doppi sensi, per ridurre la violenza ed il sangue così manifesti in battute complici che trascendono lo schermo nello scherno. E nella secchezza del suo sviluppo, un inseguimento in autostrada e un combattimento finale in un cantiere navale, giustamente esagerati nella spettacolarità, con l’inserzione di flashback esplicativi, spezzettati e conditi dalle salaci descrizioni off del protagonista in funzione antiretorica, Deadpool è un dignitoso esordio per il regista, molto attento alla resa grafica di ogni sequenza e inquadratura.
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