Regia di Sergio Panariello vedi scheda film
Sergio Panariello, insieme alle famiglie e agli attivisti al centro del suo film, vuole ripartire dalle parole, dal loro peso e dalle modalità superficiali con cui vengono usate. Il “campo” del titolo è quello che associamo ai “nomadi”, quello della locuzione “campo rom”: i pedinamenti e i racconti in prima persona che spaziano dal nord (Rovigo e Bolzano) al sud dell’Italia (Cosenza) bonificano la coltre di disinformazione per ricordare allo spettatore che queste strutture non sono state volute dai rom, molti dei quali vivono in case “normali”, con il mutuo, il lavoro, i doveri di un “normale” cittadino italiano. Partendo, didascalicamente, necessariamente, dalle parole, quelle della stampa e quelle delle conversazioni da bar; ricordando l’ovvio, che “rom” non significa “zingaro” né è sinonimo di “rumeno”;?mettendo lo spettatore di fronte alla frustrazione quotidiana di una comunità che deve lottare non solo per i propri diritti, ma anche per la banale affermazione della propria identità. Altrettanto didascalica è la metafora cinematografica cui il film deve il titolo e alcuni dei suoi limiti: per rimettere “in campo”, al centro dell’inquadratura, la vita dei rom e dei sinti italiani, Panariello e il team di autori ricorrono a un dispositivo talvolta artificioso, ricostruendo parzialmente la quotidianità, lasciando svolgersi davanti alla macchina da presa telefonate e baruffe, cercando spontaneità e non sempre trovandola. Al servizio, però, di un documento da diffondere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta