Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film
Un film di Giuseppe Tornatore è sempre un film sul cinema, sulla deriva voyeuristica della visione e quindi della visibilità, sulla vocazione immanente alla nostalgia in quanto dolore del ritorno. Un’iperbole del melodramma mitigato dal noir, irreversibile indagine sentimentale sulla crudeltà del tempo. Forse bisogna andare oltre ciò che vediamo in questo La corrispondenza, scavare sotto la superficie di questo finto giallo intimamente virato in rouge e plasticamente votato ad una asettica freddezza cromatica, fin troppo glamorous nella sua sprovincializzata scelta di uscire dal seminato locale. Cercare le ragione di questa tremenda apoteosi dell’egoismo, legare i frammenti del discorso amoroso nella prospettiva di un inquietante enigma su un uomo che ambiva a vivere due volte e una donna che sapeva troppo poco. Il loro amore non ci interessa davvero: il bacio, celebrato e sublimato da Tornatore nel finale del suo film più celebre, abita l’incipit erotico dichiarando un raro menefreghismo nei confronti della chimica dei corpi e dell’esercizio relazionale.
La fantascienza, evocata esplicitamente dalla comune occupazione dei due (lui è un blasonato docente di astronomia, lei una studentessa fuoricorso della medesima disciplina), si dichiara territorio d’elezione del film: al di là del lessico più imbarazzante che adolescenziale (lui è lo “stregone”, il loro amore è una “galassia” e così via), la chiave pare essere nelle stelle morte la cui luce rifulge per millenni. Oppure no? Le parole di lui vengono dal passato, condizionano il presente ed immaginano o addirittura programmano il futuro della sua amata, si pongono come gli oggetti di un fantasma che impedisce alla vivente di vivere, come se tra i due sussista un potenzialmente infinito dialogo tra la vita e la morte. Un corpo che si relaziona con uno schermo, una professionista del dolore (fa la stuntman) alle prese con il dolore altrui ed “altro” che finisce per riguardarla direttamente, la spettatrice coinvolta di un film-rompicapo.
Una maledetta ambizione o il proseguimento di una storia, un’angosciante perversione o un clamoroso atto d’amore? Allora la vera chiave del film è proprio quella corrispondenza: un sociologo relegherebbe tutto alla liquidità della comunicazione, ma si farebbe un torto alla questione puramente fattuale. Il discorso amoroso trova una ragione non tanto nel monologo filmato del professore, quanto nelle buste rosse indirizzate alla ragazza, nella natura fattuale del love affair, nel recupero della concretezza, le mani che toccano la carta accarezzata da altre mani: e quasi sempre contengono un impersonale cd. Alla fine è difficile perdonare alcuni svarioni narrativi o dialoghi talora imbarazzanti (i servizi segreti?) e nemmeno qualche cedimento al kitsch (la foglia, l’aquila) però lodi alla scelta di quel borgo lacustre quintessenza della nostalgia, allo slancio romantico del regista professionale nell’esecuzione d’alto profilo e spericolato nelle temerarie intenzioni, al rischio corso da chi poteva tranquillamente reiterare se stesso e osa con titanica consapevolezza del possibile errore.
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