Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film
Un film che è come una raccomandata di Equitalia.
Siamo solo all’inizio dell’Anno del Signore 2016 e abbiamo già il primo, potente scult.
Giuseppe Tornatore gira quello che è la summa perfetta del suo cinema grasso, tronfio di un sé autoriale che fagocita ogni storia trasformandola in un guazzabuglio di segni sconclusionati. Uno zombi, questo film, che cade a pezzi ma insiste ottusamente nel voler rimanere in piedi. Un congegno inerte, fine a se stesso, che trova una giustificazione (poco) plausibile solo nella meccanica che porta stancamente alla fine. La meccanica degli eventi che scansa il senso di un film pasticciato a partire dall’ideazione, per sprofondare nella scrittura (dello stesso Tornatore), decomporsi nella messa in scena, tenuto insieme malamente come nel Prometeo Moderno (o Frankenstein) da un montaggio alla meno peggio che assomiglia ad una pietosa sutura di un’orribile ferita su un campo di battaglia. Come se non bastasse il doppiaggio italiano cancella ogni residuo interesse per attori che (supponiamo) possano essere anche bravi.
Nel disastro affonda anche Ennio Morricone autore di un refrain melenso e ripetuto in loop (meccanico anch’esso) più che per sottolineare l’intensità delle scene, per cercare di convincere lo spettatore che quello a cui sta assistendo, è un film intenso. Il Maestro che non voleva lavorare con Tarantino e per il quale probabilmente vincerà l’Oscar, credo che vedendo il risultato finale di questo film possa trarre anch’egli una lezione di vita: non è lo status di autore impegnato che fa fare i buoni film. E non è il tema importante che salva i cattivi film.
Non è mai troppo tardi per imparare.
Il tentativo è quello di una storia d’amore tra Amy, una studentessa di astrofisica che per arrotondare fa la stunt per il cinema, Olga Kirulyenko e Ed un rinomatissimo professore/scienziato più anziano di lei, Jeremy Irons. Tentativo asfissiato dal peso del tema che affronta: la parcellizzazione in pixel della personalità e la delega della memoria allo spirito che alberga nell’hard disk, evoluzione metempsicotica 3.0 propria dei social network.
Storia d’amore che sfocia nella trascendenza del sé attraverso il meccanismo (ancora) dei device moderni capaci di varcare il labile confine tra la vita e la morte, La corrispondenza assomiglia più ad uno spam orgiastico di metafore trite e ripetute fino allo sfinimento sulle stelle e l’infinito. La Perugina si frega le mani perché si ritrova con un decennio di bugiardini da cioccolatino belli pronti.
Anche il concetto di comunicazione virtuale, attraverso il web, il portatile e gli schermi che aprono spazi nello spazio (quante inquadrature con lo schermo del computer aperto su un campo lungo) è trattato in modo già vecchio. Quanta delicatezza e amore c’era tra il Theodore di Her (Spike Jonze) e il suo sistema operativo.
Quanta stanchezza c’è nei reiterati campi e controcampi tra Amy e i filmati che l’amante Ed le manda nei modi più disparati, sfidando e perdendo clamorosamente il confronto con la sospensione dell’incredulità dello spettatore precipitandolo nelle paludi della noia.
Tornatore cerca la bella immagine ma trova solo stereotipi; costringe a credere alla storia d’amore dopo la morte a colpi di maglio, all’assalto del castello emotivo di chi guarda sfiancandolo con dialoghi ridicoli, esplicativi da romanticume da soap opera e esigendo credibilità dai primi piani piangenti di una sempre più spaesata Kirulyenko. Più spaesata del personaggio che interpreta.
La corrispondenza è un trito fantamelò che cerca una credibilità autoriale e statura internazionale mischiando temi potenti a una meccanica da thriller metafisico. Un vorrei ma non ci riesco proprio un po’ sbruffone nella ricerca sbandierata del basso profilo quando invece il tutto è semplicemente troppo.
Non si salva nulla di questo film composto da centinaia di scene ripetute, a volte inutili o funzionali solo a raccordare una storia che non emoziona e mai si raccorda con ciò che vuole raccontare, impantanandosi miseramente nella banalità.
Il complicato gioco di posta (elettronica, cartacea, video) che Ed imposta con Amy (e con tutti quelli che Amy conosce) è veramente fastidioso, farraginoso nella sua evoluzione e pasticciato nella realizzazione. L’incredulità che si avverte è simile a quando si assiste alle gesta dell’Enigmista della saga di Saw, un killer capace di prevedere le mosse delle sue vittime in divinatorio anticipo. Ma Saw è un gioco scoperto per bambini sadici; La corrispondenza, nel suo motore narrativo è solo sadico romanticume.
C’è una distanza siderale (così si resta in tema) tra ciò che la storia vorrebbe narrare e la sua realizzazione. Ciò che si vede sullo schermo è la proiezione nel tempo e nello spazio di una storia morta già in scrittura, appena nata, parafrasando la metafora della luce delle stelle morte, pietra angolare del film. E paradossalmente questa è l’unica corrispondenza possibile di un film pesantemente enfatico, incapace di dare un’emozione genuina, serioso e totalmente sbagliato.
Nonostante l’ospitata da Fabio Fazio, vassallo genuflesso al servizio delle più patetiche forme di promozione paracula, La corrispondenza si candida già come peggior film dell’anno.
Unica nota di merito: la bella Olga fa vedere le tette, prezzo da pagare al salatissimo conto dell’Autore.
Stanco, stanchissimo.
N.B 1) Il didascalismo compulsivo di Tornatore impone di spadellare tutto e di più della storia d’amore, anche quello che normalmente resta serrato nella intimità della coppia. Il mistero dell’amore è appunto mistero al quale ogni amante dà un nome. O nomignolo. Cose che non si dovrebbero rivelare. Invece: nell’intimità i due piccioncini si chiamano Kamikaze e Stregone ( Diobono!!!).
N.B 2) Accortezze di pruderie da product placement: l’auto che usano dei personaggi è inquadrata con un palo che ne nasconde la grande stella posta sulla calandra. Non si dovrebbe riconoscere. Si riconosce? Si? Ah, è il nuovo modello? Dai. Bella però.
N.B 3) Accortezze di pruderie da product placement (2): la bella Amy, studiosa di astrofisica (quindi si suppone scolarizzata e nativa digitale, vista l’età) per far andare il suo pc, lo picchia. Come si fa con una lavatrice quando il cesto si blocca per il calcare. O il vecchio trucco del virile patriarca delle famiglie anni 60 quando i televisori a valvole non volevano funzionare. Il paterno sganassone risolveva tutto. Anche qui. La marca del computer? Un HP. Lo avrebbe fatto con un Apple? Non credo. Sai che mandrie di avvocati da Cupertino.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta