Regia di Jessie Nelson vedi scheda film
Film che sbava spirito natalizio a gogò, dalle premesse ritrite, l’andamento interessante, il finale inaccettabile (per le modalità con cui si concretizza). Ottima la coralità, garantita da un nutrito, interessante cast ed originale la narrazione.
Come una sorta di “Sabato del villaggio” cinematografico, il regista Jessie Nelson descrive le ore di preparazione alla festa più attesa dell’anno da parte della solita famiglia piena di contraddizioni, segreti, discrepanze anche notevoli tra vita privata e faccende pubbliche. I personaggi irrompono sullo schermo delineando pian piano il proprio ruolo e la propria storia: tutto si regge sulla coppia scoppiata formata da Sam (John Goodman) e Charlotte (Diane Keaton), attorno ai quali si muovo altre 3 generazioni. Alla vigilia di Natale, ognuno dipana la propria infelice esistenza, preparandosi ad indossare la maschera per le tre ore del cenone in cui per prassi tutto deve essere perfetto: Sam e Charlotte non hanno ancora detto ai parenti della loro volontà di allontanarsi, il figlio Hank (Ed Helms) si accompagna ancora alla moglie da cui è separato, la bella secondogenita Eleanor (Olivia Wilde) preferisce andare al cenone con uno sconosciuto piuttosto che rivelare il suo ruolo di rovinafamiglie, trovando appagamento solo con uomini sposati, la zia Emma (Marisa Tomei) addirittura veste un ruolo che stravolge il suo modo di essere pur di apparire adeguata al resto della famiglia. E gli anziani del gruppo, nonché l’ultima generazioni di nipotini, non sono da meno in questo teatrino dell’ipocrisia.
Una storia sostanzialmente già vista, che però ha nella sceneggiatura una fonte di originali trovate che consentono al regista Jessie Nelson di spaziare verso sentieri non del tutto battuti, usando una linea narrativa tutt’altro che scontata che riequilibra il senso di dejà vu che può pervadere lo spettatore. Tra tutte le storie quelle che meritano un accenno, e su cui la storia si sofferma di più, sono il rapporto di mutuo soccorso tra Emma e il poliziotto (Antony Mackie) che la sta traducendo in prigione, ma soprattutto l’avvicinamento sentimentale in aeroporto tra Eleanor e il marine interpretato da Jake Lacy, descritto con grande maestria narrativa da un avvincente tira e molla basato sul sottile confine che divide realtà e finzione.
Un ruolo importante, specie nella prima parte, è ricoperto dalla peculiare voce fuori campo, che oltre ad alleviare il senso di spaesamento che accompagna la moltitudine di personaggi e situazioni sullo schermo, conferisce quell’aurea di iper-sentimentalismo ricordando, per stile e intonazione, il martellante accompagnamento dei film-carillon di Jean-Pierre Jeunet (il richiamo non è casuale considerate le numerose visioni, i ricordi, i sogni ad occhi aperti che caratterizzano la messa in scena).
In sostanza non solo un film sull’atmosfera del Natale (c’è più retorica natalizia nei primi 5 minuti di film, specie nelle ambientazioni e nella scenografia) che nell’ultimo lustro di produzioni cinematografiche natalizie, ma soprattutto una galleria di personaggi capaci di indossare maschere che nemmeno il buonismo d(i un film che parla d)el Natale può tenere occultate, tanto che durante e dopo la cena la verità pian piano diventa protagonista. Un (obbligato?) declivio verso l’happy end che tuttavia lascia l’amaro in bocca, non solo e non tanto perché tutte le cose si sistemano, anche quelle apparentemente irreparabili (il matrimonio di Hank, la depressione di Emma, la salute di Bucky), ma soprattutto per il modo sbrigativo e improvviso con cui anni di incomprensioni si risolvono tutti completamente e contemporaneamente in un amen. Certamente un prodotto originale rispetto a tanti altri, godibile e coeso, con la pecca del finale inverosimile. O forse no, a patto che, considerata quanto è difficile la vita, si prenda “Natale all’improvviso” come la più grande favola (nel senso di storia inverosimile e fantasiosa) mai scritta.
Il che appare difficile da ipotizzare.
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