Regia di Elisabetta Lodoli vedi scheda film
Isaia, dice:
“Il Signore dice:
'Guardate che arie si danno
le donne di Gerusalemme!
Passeggiano pavoneggiandosi.
Civettano in tutti gli angoli della città.
Passeggiano vanitose
e fanno tintinnare alle caviglie
i loro gioielli.
Ma io le punirò:
raderò a zero le loro chiome,
renderò calve le donne di Sion'.
Quel giorno il Signore
toglierà alle donne tutti i loro ornamenti,
i gioielli che portano alle caviglie,
quelli che hanno sulla testa, al collo,
e alle braccia.
Le spoglierà dei loro ornamenti,
e dei loro capelli;
del fascino magico del loro corpo;
degli anelli delle dita e del naso;
di tutti gli abiti eleganti,
delle gonne, degli scialli e delle borse,
delle camicie trasparenti,
dei fazzoletti di seta e delle sciarpe,
dei lunghi veli che ricoprono la loro testa.
Invece di essere profumate puzzeranno,
invece di eleganti cinture avranno corde
grossolane;
invece di belle capigliature, calvizie;
invece di eleganti vestiti, sacchi;
invece di bellezza, un marchio d'infamia.
Gli uomini saranno uccisi
i più forti cadranno in battaglia.
Alle porte della città
si udranno solo pianti e lamenti,
e la città stessa giacerà,
come una donna abbandonata da tutti”.
https://www.youtube.com/watch?v=_rwSI8L5zzQ
Sarajevo è così in questo documento visivo, sottile e pulsante come una ferita senza candore – sparsa nel petto, sotto l’ascella del cuore del mondo europeo, magari –, come una fossa di spine dietro, e improvvisa, una tonda collina di bosco e nuvole. Come dentro un campo di fragole dove due bambini con il padre imparano il tempo della raccolta. La Bosnia è tutta così, mentre si attende che le nuove generazioni crescano dentro ai calici delle etnie, assaporino il vino della menzogna e – dalle fragole della verità –, portino alla loro bocca le parole dei comandanti. Gli ordini del fuoco. I bisbigli del cecchino per le strade. Da parte a parte. Vicolo per vicolo. Massacro per stupro e donna per donna. Uomo ad uomo, con la lama.
Il mondo così è. Ci sono parole uguali e ci sono sentimenti tanto diversi tra di loro. E la dannazione di ogni epoca, l’istinto di tutte le generazioni che si sono succedute dall’inizio del tempo, il varco – ammesso che esista ancora un varco per noi, e per chi viene dopo di noi – sta nel trovare il nesso tra ciò che stride tra i denti e ciò che cova nel cuore.
Questo luccicante lavoro documentario di Elisabetta Lodoli conserva una pace visiva, una sorta di collirio religioso, che passa a detergere quello che le nostre memorie in immagine avevano oramai dimenticato dall’altra parte dei flutti adriatici. Che davvero l’orda della violenza è poco più in là del vetro delle nostre finestre, dai visi dei nostri amici, lungo i pochi chilometri di un confine di cui ascoltiamo il silenzio rumoroso, a pochissime ragioni dalla nostra cultura. A nessun passo dalle sedie dei nostri bar all’aperto.
A tal proposito, il poeta Ivan Crico ha recentemente ricordato gli scontri al valico di Casarossa, a Gorizia, nel giugno del 1991, quando i commandos sloveni attaccarono i federali alla frontiera con l’Italia. E li sintetizza così.
Ivan Crico, dice:
“LA GUERRA DA NOI –
Ai giovani narcotizzati
dalle pubblicità degli ultimi modelli di smartphone,
agli adulti dalla memoria troppo corta,
ricordiamo ciò che accadde sulla soglia della nostra casa,
nel giugno del '91.
Mia moglie li sentì benissimo, quegli spari,
dalle finestre aperte del Liceo Artistico di Gorizia
(in cui si svolgevano gli esami di Maturità), che si trova
a pochi metri dalla frontiera.
Lei sognava il futuro
mentre altri giovani, poco più in là,
lo strappavano dal cuore dei loro coetanei,
nell'indifferenza di un Europa accecata dai deserti delle cifre.”
https://www.youtube.com/watch?v=GtOn58CRerA
Ecco, dopo tutto il poco che divide il dove siamo noi dal dove sta la bestia che sbrana e devasta l’essere umano, possiamo segnare anche questo tentativo – cinematograficamente riuscito / drammaticamente attuale – di avvicinare le parole al loro demone interiore. Un demone che mentre scorrono i narratori della storia trattata (visi dolci e netti in primo piano, particolari d’occhi pieni di lacrime appese, bocche che si serrano in spasmi appena controllati, coppie unite d’amore ‘emarginato’ e ‘diverso’), si materializza e si nasconde dentro le pieghe delle cose e della carne. “Vivevo in quello che ritenevo uno splendido stato democratico”, dice uno che poi va in un campo e viene torturato e si salva per miracolo. “Tutti abbiamo perduto, tutte le generazioni hanno perso in questa guerra”, dice un giovane che ricorda gli anni passati ed imprigionati in un palazzo sotto il rumore assordante delle mine, le urla dei feriti. “Cercavano di scappare insieme da Sarajevo, lei – Admira – era musulmana e lui – Bosko – di etnia serba, e mentre attraversavano il ponte vennero centrati dall’esercito serbo che stava su quelle colline”, dice una giornalista mentre ha sullo sfondo il ‘Ponte di Romeo e Giulietta’, “e poiché lì c’era la linea del fronte nessuno poté andare a rimuovere i loro corpi”. Mentre ascoltiamo, dietro si vede l’acqua chiara scorrere limpidissima. “Quindi sono rimasti lì per sette giorni”. Una indefinita voce maschile, fuori campo, ricorda alla donna un particolare da lei dimenticato. E lei, dolcemente, annuisce. “Così, abbracciati”. Ecco, proprio per questo particolare ci troviamo lì, ad ascoltare questa donna davanti al ponte di Romeo e Giulietta.
Insomma, la guerra.
Una guerra mai finita, che giorno dopo giorno fa nuove vittime. “Ora si compie il genocidio di chi è sopravvissuto”, dice una donna a cui hanno ammazzato marito e figlio. La seconda parte della distruzione trascina con sé gli uomini con la malattia mentale, con il cancro ed il crepacuore, con la nostalgia, con la solitudine dei senza lavoro, degli emarginati (“Io sono un cittadino di serie B, ed il futuro mi fa paura”, dice un disoccupato con problemi di relazione), e con grande perizia civile la Lodoli – già fattasi notare per il bel “La pace a due voci” sulla diaspora palestinese e sul tentativo di convivenza con gli ebrei – torna a consegnare il suo discorso sul futuro di questa terra martoriata. Già, se un grande merito ha questo lavoro così segnato da un’umanità filosofica che non lascia scampo, è proprio quello di non trattenere con la pellicola del documento tutta l’ansia e lo spaesamento del presente. Il cozzare di nuove generazioni che usano la stessa lingua ma hanno diverse emozioni dentro lo spirito e, inesorabilmente, tendono a vedere due mondi in uno solo. Da un lato i nonni ed i padri che hanno ancora addosso e dentro le cicatrici della guerra e dell’odio etnico, e davanti a loro i giovani che nulla sanno della morte e dell’omicidio e vagheggiano nuove indipendenze, assimilano nuovi odi, tramano nuovi tradimenti. Il vicino che accoltella il vicino. L’amico che spara in bocca all’amico. Il fratello che imprigiona il fratello.
Non so perché, ma mi rinviene in mente la storia, forse non troppo nota, di Jesse Owens e di Luz Long.
Il primo – americano di colore – primatista mondiale e pluripremiato alle Olimpiadi naziste di Berlino nel ’36, ed il secondo – biondo ariano – vanto dello sport e della propaganda goebbelsiana. Si trovano in gara nel salto in lungo; la stampa ed il pubblico, oceanico, vorrebbero la rivincita della razza e chiedono che quella parola (‘sport’), il demone della storia la usi, quel giorno, per alimentare il fuoco dello scontro, della rivendicazione e dell’umiliazione dell’avversario. Il ‘neger’ Jesse, sotto ai fischi dell’Olympiastadion, fallisce i primi due tentativi, mentre Long è in testa dopo aver sfiorato il suo primato personale. Ma succede l’impensabile; Long si avvicina a Owens, parlottano, si scambiano dei pareri, poi si stendono l’uno vicino all’altro osservando gli altri atleti in gara. E lì che il tedesco consiglia all’americano di ‘staccare’ prima, battere in anticipo per prendere più velocità e riuscire a migliorare il salto. Il salto successivo di Owens è perfetto, e sarà quello vincente.
Jesse e Luz, da quel giorno, diventano più che amici. Si chiamano ‘fratelli’, iniziano a comporre un lungo e denso epistolario che nemmeno lo scoppio della guerra interromperà. Anzi. Il 3 luglio del 1943, dal fronte siciliano dove si trova impegnato con il suo battaglione di paracadutisti d’assalto, il tedesco scrive una accorata lettera all’amico di Oakville. Sente la morte vicina e prega Owens, suo fratello Jesse, di prendersi cura della moglie e del figlio rimasti in Germania, di andarli a visitare dopo la fine del conflitto e di raccontare al piccolo la storia di suo padre e della loro amicizia senza confini e senza colori. Poco più di una settimana dopo, Luz Long morirà, presso l’aereoporto militare di Biscari. A qualche centinaia di chilometri da dove, oggi, vivo io con la mia esile, forse inutile esistenza. Tanto per ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, la prossimità del male, la dispersione delle ceneri di un mostro che si rigenera e ri-infetta ogni dove ammantando di spore invisibili anche le contrade più placide che si godono la goduria del sole.
La ‘freccia dell’Alabama’ rispose a quell’ultima epistola.
Jesse Owens, dice:
“Fratello Luz,
ho appena ricevuto la tua lettera e me ne dispiace
che non so come e quando ti arriverà la mia risposta,
perché volevo dirti che
ieri notte ho sognato quella gara, quella di Berlino
ed era così come è andata, ma alla fine,
proprio alla fine del sogno, io e te eravamo
assieme che ridevamo sul gradino più alto del podio.
Così è che ti aspetto, qui sul davanzale della mia casa
ad Oakville.
Dove sono seduto, ed è un pomeriggio sereno che
conto le nuvole nel cielo terso,
e tengo pronta la tua sedia. Quando verrai.”
https://www.youtube.com/watch?v=6FSbJH-Qk_s
Isu. Isitulo. Silla. Shtul. Stilets. Stoel. Stol. Stul. Stolicky. Stolica… Sedia.
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