Regia di Elisabetta Lodoli vedi scheda film
La parola “sedia” si traduce con il medesimo termine, “stolica”, in serbo, in croato e in bosniaco. In realtà, lo stesso avviene con “amore” e “vita”, ma la scelta di Elisabetta Lodoli cade su un termine banale, pragmatico: un oggetto che si usa ogni giorno, che si dà per scontato, che, più di concetti universali, rende l’idea dell’unità culturale di un paese. L’unità che la ex Jugoslavia conosceva fino al 1992, spazzata via dal conflitto e dalla ridefinizione dei confini geopolitici della zona balcanica, scritti col sangue, con l’odio e con la differenza. Le interviste della regista mettono davanti all’obiettivo individui di etnie e religioni diverse, per raccontare non solo lo strappo, il momento in cui la guerra è entrata nelle loro vite;?non solo i lutti e le ferite, ma soprattutto il dopo, i decenni trascorsi, il percorso accidentato (e moralmente problematico) di una popolazione composta, interamente, da reduci. Lodoli contrappone lo schematismo arido, quasi grottesco, delle mappe e delle didascalie in sovrimpressione (che sintetizzano vent’anni di evoluzione delle carte geografiche) alla complessità drammatica dell’esperienza umana. Non dicibile, perfino: una delle sue interlocutrici si ferma, quieta, affermando che «quella storia non la posso raccontare». I confini non combaciano con le etnie, l’identità è un concetto inafferrabile eppure cruciale, che gli intervistati tentano di affermare con le parole, trovandole tragicamente insufficienti.
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