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Un uomo americano

Regia di Nino Marino vedi scheda film

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La recensione su Un uomo americano

di mm40
4 stelle

Un venditore ambulante si procura una pistola e si reca a Hollywood per vendicarsi della fidanzata che l’ha piantato in asso. Lungo la strada però uccide inavvertitamente uno sconosciuto e si ritrova a scappare per gli Usa insieme prima a una tossica ninfomane e poi a un bizzarro pellerossa.

Questa pellicola è quasi leggendaria: vuoi per la difficile reperibilità, problema finalmente aggirato soltanto nell’era del web e di YouTube, a 40 anni di distanza dall’uscita in sala; vuoi perché si tratta della prima e ultima regia di Nino Marino, sceneggiatore che aveva già lavorato con Salce e Franco Rossi (tra gli altri) e che in futuro licenzierà svariati ulteriori copioni sia per il cinema che per la tv; vuoi – soprattutto, insomma – perché questo è il primo ruolo ufficiale, e per giunta da protagonista, di Luca Barbareschi nel cinema, dopo una particina non accreditato in Da Corleone a Brooklyn (Umberto Lenzi, 1979), uscito pochissimo prima. Barbareschi si firma Frankie Speranza, pseudonimo che a tutti gli effetti gli ha portato bene; doppiato in maniera abbastanza appsosimativa, come interprete fa qui una discreta figura e ruba la scena agli altri elementi di un cast che, d’altronde, non offre alternative degne di nota: Joaquim de Almeida, Lynette Johnson, Gregory Couroyer e Antonella Murgia occupano gli altri ruoli centrali. Curiosamente, nonostante l’ambientazione in terra americana e la nutrita presenza di attori locali, Un uomo americano risulta essere una produzione interamente italiana; al di là della trama un po’ sgangherata (sceneggiatura dello stesso Marino) e di una limitata consistenza psicologica dei personaggi, il ritmo è piuttosto alto e la tensione, altalenante, si fa avvertire quanto basta per tenere acceso l’interesse dello spettatore lungo tutti e cento i minuti di durata della pellicola. La nota di maggior rilievo rimane comunque il finale, nel quale l’umana rassegnazione prende il posto della vendetta nei sentimenti del protagonista. Al contrario la cosa peggiore è senza dubbio il sottotitolo: “Son of a bitch figlio di…” (scritto precisamente così). 4/10.

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