Regia di Garin Hovannisian, Alec Mouhibian vedi scheda film
Il passato non deve per forza tornare. Richiamarlo non è come pronunciare la formula magica in grado di sconfiggerlo, di superarlo. È trascorso esattamente un secolo dall’inizio genocidio armeno, e a Los Angeles e ci sono folle che chiedono giustizia pubblicamente, manifestando per le strade, mentre altri ritengono di poter chiudere il conto in privato, esorcizzando la propria personale tragedia con un rito in grado di scacciarne per sempre i fantasmi. Simon è un regista e drammaturgo, discendente di sopravvissuti al massacro, uno dei tanti figli della diaspora. Il suo teatro è rimasto chiuso per sette anni, ed ora riapre i battenti per mettere in scena una storia che rievoca quell’orrore, le deportazioni, le stragi, che narra di vittime e carnefici, di sacrifici e resistenza, ma anche di un tradimento che non ha nulla di eroico. Quella nota finale sembra proprio sbagliata. La vicenda prende una piega politicamente scorretta, e non se ne vede la ragione. I connazionali di Simon protestano. Non si può infangare l’onore delle donne armene raccontando di Ani, la madre di famiglia che, durante la lunga, fatale marcia attraverso il deserto, decide di salvarsi da sola, fuggendo con l’ufficiale turco che da tempo la corteggia. Una svolta inopportuna: ma, nella mente del suo autore, altamente significativa. In quell’errore così fuori luogo, così scandaloso, è racchiuso il vero atto di accusa: le cose sono andate così perché qualcuno non ha saputo prendere la decisione giusta, si è lasciato piegare, ingannare, non ha saputo pensare in grande, alle conseguenze del suo mancato coraggio. E il discorso non concerne solo la Storia, i popoli e i loro capi, gli eserciti e gli abitanti dei villaggi. Ci sono di mezzo anche guerre e strategie che interessano la sfera dei sentimenti, delle relazioni umane, degli amori, dei dolori, dei rimorsi che segnano la vita e la portano fuori strada. Simon è convinto che la provocazione sia la cura più indicata per porre fine al pianto inconcludente, che esclude l’autocritica, giudica a distanza secondo criteri generali, e non risolve nulla. Bisogna rendersi conto che il problema è vivo, e riguarda ognuno. Quei morti sono ancora presenti, tra noi, con le loro debolezze, con le coscienze che non si danno pace, perché gli uni e gli altri forse avrebbero potuto fare qualcosa di più. Ci sono gli innocenti indifesi, e quelli che hanno scelto di non impugnare le armi. Tutti hanno agito in buona fede, ma inconsapevolmente hanno dato via libera al male. Anche Angela, la giovane moglie di Simon, reca dentro di sé una colpa con cui dovrebbe confrontarsi, per darle finalmente un nome, per smettere di seppellirla nella sterile ed ossessionante confusione del dubbio. Simon la vuole costringere ad intraprendere quel terribile viaggio verso la conoscenza di se stessa, destinato a culminare con l’incontro del proprio lato mostruoso: un volto sinistro ed ombroso, reso micidiale dalla fragilità dell’animo, che a volte acceca. Il racconto si muove lentamente, avvicinandosi alla meta lungo un percorso circolare, sofferto, circospetto: è il progressivo accerchiamento di quel nemico che si chiama ricordo, che non se ne va, che continua ad insidiare il presente, con il gusto sadico di chi sa di avere un potere enorme. Gli piace giocare con Angela, farla piangere, farla svenire, annebbiarle la mente, offuscarne lo sguardo. Il dramma, più che nel copione, è contenuto nella preparazione della battaglia finale, nelle prove in costume durante le quali tutto deve essere reale, compreso il sangue che cola, perché è la verità, non la finzione, quella che deve parlare agli spettatori, ed agli stessi interpreti, completamente trasformati nei loro personaggi. Angela deve essere Ani, colei che si macchia di un imperdonabile delitto, contro la decenza e contro natura, e che, nel commetterlo, per una volta non si nasconde al mondo. Il conflitto, interiore ed esteriore, segue le linee un piuttosto rigide della visione apocalittica e paternalistica del regista-padrone, i cui schemi mentali si ripercuotono, nei toni della storia, con echi di pathos e retorica non molto funzionali alla fluidità del discorso. La dialettica si ritrova soffocata da prese di posizione troppo nette per sembrare plausibili, in cui le sfumature e le esitazioni tipicamente umane cedono il passo ad una enfatica arrampicata sulla scivolosa parete delle dichiarazioni di principio. La situazione si sbloccherà, all’improvviso, ed inaspettatamente, con la rassegnazione e il ritorno alla serenità: una morale un po’ tiepida e decisamente generica, che male si accorda con l’ambizioso travaglio che l’ha preceduta.
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