Regia di Gianfranco Rosi vedi scheda film
L’occhio pigro di Rosi ci offre una Lampedusa di vecchi e bambini, alternata ed estranea all’invasione migratoria di vivi e morti.
La fine del turismo, i campi di accoglienza selvaggi, la convivenza forzata con un problema mondiale divenuto fenomeno locale interessa poco.
Salvare la pellicola affermando che il messaggio era per l’Europa poi, sembra ridicolo.. un po’ come la nonna di Samuele che ciancica un “poveri” quando la radio clava locale parla di nuovi sbarchi…
Il medico di Lampedusa è l’unico intermezzo che ci dona umanità affranta e impotente verso questa sciagura immane.
Un intermezzo reale, intenso ed efficace, relegato giustamente da Rosi a brevissimo spot..
Il resto del documentario svaria lento come solo a Rosi riesce, tra il déjà vu e l’inutile: saracinesche che si alzano, motorette che rombano, vecchiette a pulire il pesce, pomodori da tagliare, visi di immigrati rigati di lacrime nelle più convenzionali e strainutili delle riprese.
Mi chiedo cosa sia stato a fare due anni a Lampedusa, Rosi, per cogliere il nulla cosmico, per sottolinearlo, per esaltarlo, per farci sentire ancora una volta come attorno a quel sacro GRA, già vilipeso a suo tempo…
Lampedusa divisa in due.. nessuna vita trasformata.. nessun tentativo di mostrare una convivenza difficile, solo una malmessa e dimessa radio locale a immalinconire gli animi, e figli di pescatori col mal di mare, un curioso controsenso che fa il paio col regista che non sapeva girare film.
Il ragazzino coi sottotitoli che succhia gli spaghetti come Bombolo, alla fine spara al cielo mimando un fucile a pompa.
Un po’ come Rosi che spara a salve per tutto il docufilm cercando di far capire, forse, all’Europa, come sia lontana da Lampedusa.. ma chi è animato di sensibilità avrebbe voluto scorgere ben altro che lo strepitìo delle lenzuola di cartapesta a riparare dal freddo e i primi piani di gente che sui barconi ha lasciato un pezzo d’anima, anche se respira ancora.
Un’isola di sogno e flemma da contrapporre alla frenesia dei corpi che si accumulano nella fuga dai loro mondi invivibili, anche a costo della vita in acque dove pescano di frodo anche i residenti, e dove bimbi dall’occhio pigro qualche passerotto, alla fine, lo salvano pure loro dall’infallibile fionda.
Noi a Rosi no. Gli mimiamo una mitragliata come Samuele.
In quel letto rifatto a carezze ripetute fino a sconfiggere le pieghe e nei baci alle mille icone nella stanza, scorgiamo un quotidiano penetrato nelle ossa e nell’anima dei residenti, ma a Rosi sfugge che esternarci la pacata lentezza di questi isolani continua solo a rivelarci il suo modo incartato di muovere (anzi di non muovere) la macchina da presa.
Se Rosi resta due anni a Lampedusa per rivelarci che la zuppa di pesce bolle lenta di sapore masticato dal tempo, ha sprecato il suo di tempo, girando pure due pseudofilm che si incastrano pochissimo tra di loro, quasi niente.
E se con l’ipocrita Orso d’Oro berlinese hanno fatto finta di prendere coscienza sul fatto che esista un problema Lampedusa, sono ancor più con la coscienza sporca.
E di più Rosi, che approfitta delle tragedie per fare fama e soldi.
E non ultimi, quelli che escono dal cinema con l’applauso in canna, convinti solo ora di saperne qualcosa di più.
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