Regia di Gianfranco Rosi vedi scheda film
Se il cinema documentario, per struttura e competenza, è più di altri predisposto a radiografare lo svolgersi del reale, questo non vuol dire che esso stesso non corra i rischi connessi al fatto di sovrapporsi all’ufficialità dei fatti, e quindi da un lato, di confermare il già detto con le inevitabili dosi di retorica che tale scelta comporta o, al contrario, di darne una versione talmente alternativa da costituire un ostacolo alla sua divulgazione. Per questo motivo non deve essere stato facile per Gianfranco Rosi trovare la chiave adatta a raccontare quello che sta accadendo in questi anni a Lampedusa, l’isola siciliana al centro delle cronache per essere diventata l’approdo del flusso migratorio proveniente dal continente africano. E qui non parliamo del resoconto nudo e crudo della catena umanitaria che dal primo soccorso alla sistemazione dei clandestini nei campi d’accoglienza costituisce la parte più scontata di un film come “Fuocoammare”.
Il nodo della questione riguardava una capacità di sguardo in grado di mettere lo spettatore nelle condizioni di essere parte in causa, oltrechè testimone, dei fatti raccontati. Si trattava quindi di trasformare l’informazione in qualcosa di più profondo e duraturo, capace di rimanere impresso nel cuore delle persone. Per farlo Rosi adotta un racconto a doppio binario che pone in parallelo l’esistenza degli immigrati sbarcati a Lampedusa con quella degli abitanti dell’isola siciliana. Una scelta non casuale perché mantenendo separati i due filoni narrativi e facendo del montaggio - secco ed ellittico – l’anello di congiunzione tra due universi distinti e separati, il regista riesce ad evocare l’indifferenza del mondo occidentale, resa concreta dalla mancanza di contatti tra le diverse comunità ed enfatizzata in ragione di un’unità di luogo che paradossalmente non produce alcuna familiarità tra gli uni e gli altri, e, al contempo, a costruire un contro canto ora poetico, ora drammatico, che si alimenta del continuo scarto tra la vitalità giocosa e spensierata del piccolo Samuele – uno scugnizzo che sarebbe piaciuto a De Sica e a Truffaut – inseguito dalla telecamera nelle sue escursioni da un capo all’altro dell’isola, e gli sguardi smarriti e sofferti dei profughi in attesa del destino che si sta per compiere.
Adottando un impianto formale che arriva al senso di ciò che vuole esprimere nella commistione tra gli elementi del paesaggio e la coralità dei personaggi, colti, come già aveva fatto “Sacro G.R.A.”, all’interno di uno spazio concentrato e periferico, “Fuocoammare” riesce nell’impresa di suscitare il riso e il pianto, producendo immagini come quelle che dei corpi senza vita all’interno dei barconi o del pianto di madri che forse non sono più tali con cui siamo costretti a fare i conti. In concorso al sessantaseiesimo festival di Berlino il film di Francesco Rosi è tra i più seri pretendenti alla vittoria finale.
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