Regia di Otto Preminger vedi scheda film
Occhio agli spoiler!!! Più giallo che nero, "Vertigine" deve la sua sostanziale riuscita a tutta una serie di componenti. Anzitutto una sceneggiatura eccellente, con dialoghi brillanti e personaggi delineati in modo tanto preciso quanto sfaccettato: una galleria di varia umanità borghese newyorkese, lontana da ogni stereotipo, popola un universo psicologico e passionale di grande ricchezza e profondità. Poi c'è un cast di interpreti azzeccato, con una splendida, sensuale, sensibile Gene Tierney, un Vincent Price ante-horror e tutti gli altri decisamente in palla. E poi c'è la regia di Preminger, misurata, intelligente, acuta. Il suo principale merito è quello di essere riuscito a calibrare i toni in modo da mantenere vivo il mistero fino alla sequenza finale. Nessun indizio prevale sugli altri: a un certo punto del film, si ha addirittura l'impressione che ad architettare l'omicidio sia stato il poliziotto, se non la stessa Laura! La fotografia supporta questo atteggiamento registico in modo sapiente, moderando il chiaroscuro e facendo in modo di mantenere l'ambiguità su ogni personaggio: nessuno resta completamente in ombra o, al contrario, illuminato. Il tono dominante è il grigio; non vi è alcuna forzatura luministica. Fino alla sequenza finale, dove invece, proprio per evidenziare l'assassino, emergono i retaggi espressionisti, declinati in particolare nel classico gioco d'ombre sui muri. Splendidamente congeniato, carica di suspense, il finale sfodera persino un geniale, sarcastico utilizzo del sonoro fuori-campo, tutto giocato sul beffardo contrappunto fra vita e arte/lavoro (con echi decadenti, tanto che Walter cita versi di D'Annunzio, non a caso). E' un film che ricorda altre due opere noir dell'epoca: "Gangsters" di Siodmak, per l'anomala struttura narrativa (l'utilizzo del flashback, che fa rivivere la "morta", annunciandone le peculiarità caratteriali attraverso il ricordo appassionato dell'amante); "La donna del ritratto" di Lang (l'immagine di Laura è evocata costantemente da un quadro che la ritrae, diventando una presenza ossessiva, specialmente per il poliziotto; ma più in generale Lang è un punto di riferimento per il concetto inafferrabile di colpa/innocenza, realtà/illusione). Preminger gestisce con misura ed attendibilità il colpo di scena centrale, evitando ogni deriva visionaria. Le reazioni dei personaggi alla ricomparsa di Laura sono tutte coerenti con i loro rispettivi sentimenti; alla fine, la vicenda, nella sua improbabilità, vanta una logica interna incrollabile. E' un film molto meno morboso e necrofilo di quanto ci si possa attendere. L'avesse girato Hitchcock, sarebbe venuta fuori una cosa molto, ma molto più perversa. Preminger invece ci conduce con calma serafica nella vita di persone lentamente ed intimamente corrose dalla passione, riflettendo nell'ambientazione (suggestivi interni borghesi, scandagliati da una mdp mobile ma discreta) la deriva esistenziale dei personaggi e attenendosi a sobri campi medi, sporadicamente ma significativamente solcati da improvvisi, lancinanti primi piani, che evidenziano i vari (e svianti) turning point ed infrangono quel muro di emotività repressa che costituisce il tono dominante del film. Oltre al finale, è molto bello il piano-sequenza iniziale, con una falsa soggettiva; ancora meglio quello antecedente l'apparizione di Laura, con il poliziotto rimasto solo a frugare nella vita del suo amore non dichiarato.
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