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Amy - The Girl Behind the Name

Regia di Asif Kapadia vedi scheda film

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La recensione su Amy - The Girl Behind the Name

di MarioC
7 stelle

La breve vita, e le immortali canzoni di Amy Winehouse. Una donna destinata a perdere, nell'amore come in tutto; una cantante che lasciava che i versi scaturissero dall'anima, per poi abbandonarli a galleggiare nel nulla.

Gli occhi assurdamente bistrati, gli amori sbagliati, gli sketch pateticamente comici di chi non perdona il successo e si ripara con comodità dietro le altrui debolezze, il gossip, i picchi di un carattere speziato un po’ più del necessario, soprattutto una voce che nasceva da dentro, tanto più bella e potente in quanto graziata da una sorta di fardello di inconsapevolezza. Il talento che si scopre di avere all’improvviso e che diventa spada di Damocle e fatica di Sisifo: il più inconsciamente bello e maledetto, quello capace di portarti alla fine e di far apparire le cose e la loro concatenazione come un lungo pellegrinaggio verso la morte (sul punto Kapadia aveva già detto molto nel tratteggiare la figura mitologica di un altro personaggio quale Ayrton Senna).

 

 

Amy Winehouse e la sua breve parabola terrena in un documentario che la pone sempre in primo piano, in ogni inquadratura, in ogni frammento di vita registrato con bulimica inquietudine (quella bulimia che la tormentava e che, col naturale senno di poi, va intesa quale ansia di vivere, respirare, assimilare, quindi tornare al vuoto, alla leggerezza senza peso di un’infanzia pur sovrappeso, dei primi ghirigori canori, degli amici provinciali, del brutto accento da sobborgo londinese). Amy Winehouse seguita, braccata, nel veloce dipanarsi cronologico di una vita brevissima: prima dalle innocenti telecamere dei compleanni e dei viaggi alla ricerca ed alla proposizione di un sound grezzo; quindi dagli agenti non sempre disinteressati, da un padre che riscopre le ragioni del sangue solo quando queste vanno a coincidere con quelle dei conti in banca. E ancora: dagli uomini che la condurranno, o da cui si lascerà docilmente condurre, lungo strade infestate da demoni, infine da quegli stessi demoni, ormai divenuti sangue in circolo ed aria da inspirare, terribile manna contro la quotidianità, estremo rifugio di solitudine, preghiera laica alla morte, che verrà a riportare (Back to black) in quel lutto da cui non ci si è mai realmente allontanati.

 

 

Il rischio dei documentari è quello di manifestare una parzialità: in fondo basta una voce, una testimomianza in più o in meno per orientare la valutazione, per portare lo spettatore lungo la via che si è scelto di percorrere. Ma Amy è un film riuscito, proprio nella sua valenza documentaria: le parole degli altri sono prevalentemente fuori campo, lontana eco di impressioni e reportage di vita di tutti i giorni; nell’inquadratura c’è esclusivamente lei, di cui interessa l’evoluzione autodistruttiva, nonché il talento emerso senza avvertimento, la capacità di sbozzare in poche parole, pregne di poesia sporca ed anche volgare, uno stato d’animo tendente alla malinconia. C’è molto gossip, e non poteva essere altrimenti: tuttavia rappresentato quale tributo da pagare alla fama, non quale volano di notorietà che molti artisti in debito di riconoscibilità tentano disperatamente di avviare. Amy era quella: spaurita di fronte ai flash, persa in notti alcooliche, sgomenta delle proprie stesse capacità che ne facevano (Tony Bennet dixit) “la più grande cantante jazz vivente”. E come una cantante (e una donna) jazz visse: rapsodicamente (Rapsodia in black, verrebbe da dire), improvvisandosi manager di se stessa, puntando le fiches al tavolo della gloria, e restando abbacinata da quel verde senza speranze.

 

 

Di regola i documentari non emozionano, non devono emozionare: sono, per definizione, cronaca e storia. E storia e cronaca sono anodine, fredde, rappresentano una vita in un contesto e, nel sottolinearla, le ascrivono una particella di immortalità. Anche Amy non può emozionare in sé perché tutto in Amy è triste: gli eccessi, le relazioni, le reazioni, le stesse canzoni. A commuovere, realmente, è una voce. Calda, aggressiva e timida, alta nelle vette del pentagramma o down,  a raschiare il fondo di un barile carico di perché. Non si deve essere per forza fans della Winehouse (chi scrive non lo è mai stato) per riconoscere a quelle corde vocali che saranno per sempre giovani la sgraziata forza di mille punti interrogativi, e la spumosa consistenza di una intonatissima disperazione.

 

 

 

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