Regia di Asif Kapadia vedi scheda film
AMY è uno splendido percorso intimo e pubblico, avvincente e straziante, che s'ingrossa senza sosta come un vero fiume in piena. Il miglior tributo possibile alla persona Amy Winehouse e alla sua arte grazie ad un regista capace di fare grande cinema su un terreno in cui molti si accontentano di asettiche e oneste ricostruzioni.
Succedono ancora cose così: quando le luci si sono accese sui titoli di coda mi sono accorto che non c'era stato l'intervallo, che non avevo fatto caso a chi mi sedeva attorno e che non avevo staccato un attimo occhi e orecchie dal film.
Sembrerebbe facile fare un documentario sulla Winehouse. In fondo si tratta di fatti recenti dettagliatamente seguiti, inseguiti e commentati dai media sin dal primo momento. O almeno così pare. Inoltre è una storia che in gran parte appartiene a un'era pesantemente digitale, cosa che mai come in questo caso dà proprio l'idea di averci fatti scivolare in un mondo di impossibile anonimato e di memoria perenne lasciata nei cellulari di amici, conoscenti, colleghi, estranei e intrusi. Immagini e voci sono un diluvio e vengono da ogni singola persona che abbia contato qualcosa nella vita di Amy, oltre che ovviamente dal mondo del gossip e della musica. Ma in questa abbondanza bisognava anche sapersi orientare cercando al contempo di dare un'immagine emozionante, convincente e vera di un personaggio pubblico mentre ancora era fresca e condizionante quella proposta dai media quando la cantante era in vita e nei molti coccodrilli postumi. Per far questo occorreva una regia dalla mano sensibile e con idee molto chiare su cosa selezionare e come ricomporre tutta questa ricchezza senza farsi tentare dalle stranezze e dai sensazionalismi qui quanto mai abbondanti.
Il film aveva il compito doveroso di restituire il maltolto a un'artista che in molti hanno conosciuto solo nella sua versione grottescamente deformata, versione troppo assente ed esagerata per ispirare simpatia umana o sembrare credibile (e non frutto di strategie pubblicitarie). Tutto sembrava veramente troppo in Amy Winehouse, le pose, il trucco, i capelli, gli sguardi persi, il presentarsi ubriaca sul palco come una star al tramonto di poco più di vent'anni. In lei la fama è coincisa con un'assurda caduta verticale, una vera e propria cancellazione di chi aveva scritto i pezzi che tutto il mondo ha poi visto cantati da quella ridicola, fragile, malata caricatura. Per questo valeva la pena di scavare a fondo e forse anche per questo il documentario di Kapadia sorprende e commuove più di quanto ci si aspetti da un soggetto dei giorni nostri. Perché l'immagine della Winehouse è abissalmente distante dalla sua sostanza, forse più di quanto si possa dire di qualunque altro artista contemporaneo.
Di conseguenza la base su cui fondare il film non poteva che essere Amy la cantante e musicista, la ragazza di talento senza ancora i costumi da diva tossica, i mascheroni e le cortine di gente attorno. E le primissime battute sono proprio per Amy ragazzina che canta tra le sue amiche, già una splendida voce, già personalità da vendere. L'inizio ci propone una visione semplice, ma anche la versione migliore di un'artista jazz completamente sbocciata che si racconta con facilità, che conosce e dichiara la sua dimensione (i classici localini fumosi di jazz), che fa sentire le canzoni composte ad amici e che attira naturalmente l'attenzione di talent scout e produttori discografici. Amiche e amici la filmano e la ricordano come fanno gli amici. È la Amy Winehouse che è stata e che avrebbe potuto essere anche in seguito. E tutto questo va ad opporsi fortemente alla Amy Winehouse che conosciamo, come contrasterà nettamente con l'atmosfera caotica, frenetica e cinicamente pubblica di cui il regista giustamente l'ammanterà nei suoi ultimi anni.
La storia procede senza cesure lungo uno scheletro apparentemente cronologico, in realtà imperniato con grande abilità su centri tematici rilevanti che una volta scoperti si allargano anche nel passato, aggiungendo così per gradi strati su strati e colori su colori alle fondamenta complesse di Amy. In tal modo il film si sviluppa in maniera sia ordinata che profonda senza esser costretto a farsi dettare i motivi d'interesse dalla successione degli avvenimenti e senza forzarsi a scegliere un'unica tesi e un unico taglio narrativo.
Dopo quella ripulita versione del suo talento il centro diventa il carattere di Amy descritto dai genitori, il che dà l'occasione per una ricognizione dell'infanzia, dell'adolescenza e delle figure di un padre assente e di una madre forse incapace di contenerla; poi inizia il capitolo Blake, l'amore e lo specchiarsi nell'autodistruzione, la fragilità e il difficile rapporto con gli uomini della sua vita (il padre ancora), ma anche la sofferenza come ispirazione per il bellissimo secondo disco che le darà fama in tutto il mondo; poi la droga, anzi le droghe e l'alcol e gli eccessi divisi con Blake, diventato intanto suo marito e sua necessità ora che tutti vogliono una parte di lei, mentre dal passato apprendiamo degli inizi delle difficoltà: gli antidepressivi a14 anni, i disturbi alimentari nascosti a tutti; infine il tempo dell'assalto dei media e dei centri di riabilitazione che confliggono con gli impegni e con l'incredibile atteggiamento opportunistico del padre, a cui vengono contrapposti gli sforzi sinceri degli amici, quelli che di Amy continuano a testimoniare e riflettere il volto più intimo e vero.
Kapadia utilizza un gran numero di strumenti registici e di montaggio con estrema consapevolezza di ciò che serve in ogni punto della narrazione e con una misura assoluta nel maneggiare le dinamiche emotive. Tutta la parte dell'ascesa della Winehouse è inframezzata dalla sua musica con riferimento visivo e agile ai testi, che per i loro contenuti esclusivamente autobiografici diventano una fonte imprescindibile e a volte impietosa di vita intima. C'è anche attenzione per i particolari che provengono dai dietro le quinte o dalle code apparentemente inutili di filmati privati. Come quando si esemplifica il momento positivo e produttivo della registrazione del secondo disco lasciando scorrere delle immagini di studio in cui Amy incide un frammento di "Back to black" e ne esce fischiettando allegramente come non ci si aspetterebbe visto il tenore della canzone. Gli azzardi di un regista che sa il fatto suo si avvertono forse soprattutto nella seconda parte del film in cui ad esempio si fa anche uso di ottime e discrete musiche originali per accompagnare i momenti più difficili, funerale compreso. Forse non proprio una scelta da documentarista, ma quando c'è questo tatto e questo gusto ben venga l'appropriazione e la modifica del semplice documento. In misurati accorgimenti come questo si nota la volontà di mantenere corposa e fluente l'orchestrazione di tutti gli elementi coinvolti, con un'incessante presenza e alternanza di immagini, voci di testimoni, musiche della Winehouse e originali che tengono continuamente in pugno l'attenzione e guidano il racconto con un ritmo impeccabile da consumato direttore d'orchestra, o forse solo da ottimo regista a tutto tondo.
Notevoli e ad effetto anche diverse "licenze cinematografiche" come il caos accecante visto dal centro dei flash dei paparazzi o anche i piccoli tocchi aerei disseminati in giro tra cui spicca quello dell'arrivo della Winehouse a New York, con l'obiettivo che dopo aver seguito Amy fino ad un taxi si allontana da terra e rivela il volto familiare della città, porta d'ingresso per la dimensione mondiale raggiunta dalla sua musica.
AMY è un film seriamente e pericolosamente emozionante che riesce in tutti i sensi a dar volume alla parte della Winehouse da cui veniva la sua musica e la sua voce. Si arriva quasi a star male per questa ragazza (non più caricatura) evidentemente sballottata tra problemi fisici, mentali e fragilità che venivano da lontano e si fatica a comprendere come mai così pochi siano stati in grado di vederla come una persona malata piuttosto che come una ridicola suppellettile dello spettacolo o come la classica gallina dalle uova d'oro. Per il resto si può solo sperare che la prossima Amy Winehouse non abbia un padre di merda e non si innamori di un drogato poser autolesionista. E al limite ci si può "rallegrare" che ci sia un film di questo livello a ricordare a tutti chi c'era dietro le canzoni. (Al limite...)
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