Regia di Asif Kapadia vedi scheda film
«Hanno provato a farmi andare in rehab, ma ho detto no, no, no». Il tormentone continua a farci da musica di sottofondo mentre confessa, con sincerità disarmante, tutta la verità, nient’altro che la verità. Kapadia prende i testi che Amy Winehouse scriveva su quaderni a righe e li sovraimprime sulle immagini di lei che canta, a occhi semichiusi, sotto l’inconfondibile capigliatura; mai espediente fu più abusato, eppure accende l’attenzione su qualcosa cui forse non avevamo dato peso: è successo tutto sotto i nostri occhi, dentro le nostre orecchie. In Amy - doc biografico voluto dalla famiglia Winehouse e successivamente disconosciuto - la sovrabbondanza di materiale inedito è quasi frastornante: prima che l’esistenza della star inglese diventasse scrutinio quotidiano da parte di fotografi, giornalisti, fan e tabloid, c’era una ragazzetta bruna che si concedeva quotidianamente alle videocamere casalinghe e all’obiettivo dei cellulari di amici. La narrazione procede lineare, cronologica, e noi osserviamo, quasi troppo da vicino, la parabola di un corpo che cresce e muta, da banale si fa iconico, poi si consuma, si disfa. La guardiamo con quel coinvolgimento colpevole a metà tra curiosità e imbarazzo, con il senso d’impotenza con cui si constata un destino inevitabile, «un fato rassegnato». Nonostante l’indagine frenetica, il mistero di Amy resta sigillato. Ma forse, chissà quanto consapevolmente, il film ci svela molto, di noi.
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