Regia di Rob Zombie vedi scheda film
Dopo i pasticciacci iniziati con l’inutile remake di Halloween (1978), Rob Zombie torna alle origini e ci catapulta di nuovo in un horror carnale, sporco, di grana grossa, molto seventy come aveva già fatto con House of 1000 Corpses (2003) e The Devil’s Rejects (2005), incantando pubblico e critica. L’abbaglio, si sa, è durato poco, anche se c’è chi ancora crede nella rivoluzione di Zombie interna al genere. Ma è dopotutto un abbaglio, confermato da 31, un film davvero sporco e cattivo, pregno di ferocia e cattivo gusto, soprattutto verbale, tra il barocco e il pop, tra l’altro mai così esagerati in Zombie. Difficile quindi capire se questo pessimo gusto sia voluto e inseguito poeticamente oppure sia il suo ennesimo scivolone.
A boicottare dall’interno il film ci sono alcuni elementi cardine di cui è direttamente responsabile il regista, anche creatore e sceneggiatore, tra cui per esempio l’ambientazione: siamo ancora negli anni settanta, precisamente nel 1976, notte di Halloween, nel bel mezzo del deserto, coordinate interessanti se non fosse che da Zombie ci si sarebbe aspettato qualcosa di diverso e più interessante. Questo continuo richiamo all’estetica di quell’epoca, che dura solo il tempo dei titoli di testa, il prologo e il finale, nasconde secondo me una pochezza di idee linguistiche ed estetiche. Notevole resta comunque la sua resa, in questo Zombie non sbaglia. Forse, però, bastava un cortometraggio. Inoltre, il barocchismo misto all’estetica pop con cui ha voluto appesantire ogni scena e ogni inquadratura non aiuta certo lo spettatore, curioso e interessato al suo cinema e al genere in questione, a seguire appunto con curiosità e interesse la storia e tutto il corredo iconografico e tematico, che restano sempre gli elementi portati di un film di genere, al netto di regia e testo. A tutto ciò si aggiunge la ferocia e il cattivo gusto con cui Zombie ha creduto di arricchire positivamente una struttura narrativa debolissima, ripetitiva e noiosa. Gli stessi attori, nomi a me sconosciuti, non hanno l’appeal giusto, non creano empatia, annoiano, anche se sono una scelta di casting in linea con la rottura del canone tanto cara a Zombie – che di fatto non avviene perché continua a ripetere se stesso. Anche la moglie Sheri Moon, non ha nulla per cui valga la pena appassionarsi, è un altro degli abbagli del cinema di Rob Zombie.
Si salvano giusto il meraviglioso incipit tutto dedicato a Doom Head, interpretato da Richard Brake, un mix tremendista tra Mick Jagger e Clint Eastwood, che da solo vale l’intero film. Non solo, anche l’idea registica che sta dietro a questo incipit in bianco e nero, con un montaggio ridotto all’osso, il dettaglio del viso-maschera del personaggio a riempire tutto l’arco narrativo, e, soprattutto, il suo monologo – di diritto tra i migliori della storia del cinema – contribuiscono a fare di questo attacco un piccolo film nel film ed il vero capolavoro di Rob Zombie. Lo stesso va detto per l’epilogo, quando Doom Head si incontra di nuovo con l’eroina sopravvissuta nel bel mezzo delle lande desertiche della zona, sotto il sole abbacinante della mattina, e ingaggia un duello dal sapore western molto apprezzato dal sottoscritto per l’ottima rilettura e la resa visiva, ma che non basta per quotare positivamente un intero film. Nel mezzo, infatti, tra incipit ed epilogo, la noia mascherata da tripudio splatter. Un altro abbaglio.
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