Regia di Ben Stiller vedi scheda film
Quindici anni di attesa rovinati in circa cento minuti, tra scelte di script discutibili ed una montagna di artisti (di cinema, moda e musica) ad alternarsi in scena. Ma su tutto latita la demenziale ispirazione originale e la direzione intrapresa crea più rumore che risate anche se sui cammei ci si può sbizzarrire.
Strano caso quello del successo a scoppio ritardato di “Zoolander” (2001), talmente deflagrante che Ben Stiller, nel frattempo impegnatosi (almeno) da regista in progetti non privi di ambizione (non ultimo “I sogni segreti di Walter Mitty” (2013), si è sentito “tirare per la giacca” da più parti ed eccolo sfornare un sequel molto atteso ad ogni latitudine come già in prima battuta testimonia la presenza in scena di una moltitudine di artisti di diversa estrazione.
Tanto rumore per un film bulimico che si maltratta da solo, per quanto poi sia inevitabile provare qualche rapace istinto godurioso, ma è veramente il minimo anche perché ci si giunge tramite tanti tentativi che il più delle volte lasciano inerti.
In seguito alla distruzione del centro per bambini fortemente voluto da Derek (Ben Stiller), sia lui che Hansel (Owen Wilson), rimasto nell’occasione ferito, si sono ritirati per anni dalle scene fin quando non ricevono da Billy Zane (Billy Zane) un invito per un spettacolare evento a Roma.
Ritrovatisi, finiscono per collaborare con un’agente (Penelope Cruz) dell’Interpool, infatti il figlio che Derek vorrebbe riconquistare è in pericolo a causa di un piano malefico che potrebbe cambiare per sempre il mondo della moda; in più, per la dabbenaggine del super-(ex)modello, ecco che Mugatu (Will Ferrell) riesce a fuggire dal carcere.
Se dar vita ad un “cult” è un’impresa titanica, riuscire a ripetersi in un sequel è qualcosa di miracoloso che infatti puntualmente anche in questo caso non si verifica, anzi, peggio ancora si perde la stella polare originale all’interno di una trama/proposizione sbilenca che fagocita di tutto e di più con riferimenti multipli ai film più disparati che servono più che altro a crear baccano visto che il filo che tiene legato il tutto appare più volte invisibile.
Il problema principale scaturisce quindi dalla sceneggiatura che rielabora goffamente il soggetto, uno script firmato (addirittura) ad otto mani da Justin Theroux, Nicholas Stoller, John Hamburg e lo stesso Ben Stiller, uno spreco di possibilità sotto ogni punto di vista, perché se la trama cerca diversi appigli, in concreto non trova continuità, ferma in una carrellata infinita di personaggi e semplici guest star con il grosso problema che la risata non diventa mai contagiosa.
Così che non è poi strano che gli unici scampoli demenziali, o semplicemente “weird”, degni di menzione arrivino da comparsate, indimenticabili le due incursioni di Sting, il destino previsto per Justin Bieber è un’amplificazione delle sfighe che in tanti (invidiosi) gli augurano, mentre Benedict Cumberbatch sfida ogni eccesso pensabile (attirandosi anche le ire degli attivisti LGBT).
Passando ai protagonisti, la coppia Ben Stiller-Owen Wilson non può ripetersi anche se l’idiozia non manca loro ed in fondo ai loro personaggi ci si è affezionati, mentre gli altri big sono sfruttati uno peggio dell’altro, con Penelope Cruz obbligata a perseguire la classica presenza “belloccia” (e strizzata nella tutina rossa genera vibrazioni) ed i talenti comici, quindi fondamentali, di Will Ferrell e soprattutto Kristen Wiig vanificati con (in)coscienza.
Un mezzo pasticcio (multi)derivativo con troppi elementi ammucchiati ad annacquare la cristallina idiozia che non può in ogni caso (del tutto) mancare, ma il clima che si respira è troppo chiassoso e tecnologico (dal 2001 il linguaggio è cambiato molto) così che il modo migliore per passare il tempo della visione è quello di sfidarsi col proprio vicino di posto per identificare il maggior numero possibile tra le decine di comparsate altisonanti (anche se molti sono introdotti esplicitamente, giusto per evitare misunderstanding).
Tanto parlare per (poco o) nulla.
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