Regia di Ascanio Celestini vedi scheda film
"Pensa che stai al bar […] pensa che il mio film non è un film, ma una storia che senti al bar. E soprattutto ricordati che questa storia la racconta un ubriaco". Queste parole, che potrebbero essere scambiate per note di regia, sono in realtà la presentazione sghemba che giusto uno spirito libero come Ascanio Celestini avrebbe potuto usare per promuovere il suo terzo film - il secondo di finzione - sui social network. Dopo avere cantato le nuove forme di schiavitù (i lavoratori dei call center di Parole sante) e la follia (La pecora nera), il poliedrico performer romano rivolge ancora una volta il suo sguardo agli ultimi, ai poveracci, ai diseredati, agli sfruttati, alla vita nelle periferie. Lo spunto narrativo è un puro pretesto: Nicola (lo stesso Celestini), artistoide costantemente attaccato alla bottiglia che si esibisce in spettacoli per bambini e gira con un ragazzino sulla quindicina al seguito (De Miranda), investe e uccide senza alcuna colpa un truffatore, padre di Sasà (Striano), un uomo che sta peggio di Nicola. Spinto dal suo cuore d'oro, Nicola si offre di aiutare Sasà, passando dalla piccole truffe a operazioni assai più pericolose che costeranno a Sasà il pestaggio in Questura.
Girato con l'occhio riconoscibilissimo di Luca Bigazzi nella periferia sud della capitale, su quella rotta della Tuscolana che dal Quadraro arriva fino a Cinecittà, Viva la sposa calca sul registro del grottesco con un racconto destrutturato e straniato, condito con una grazia leggera e uno sguardo benevolo ai suoi accattoni. Un piccolo film un po' sgangherato ma dal grande coraggio: non solo quello di dare voce ancora una volta agli ultimi, ma anche quello di raccontare senza troppi fronzoli la tragedia di Giuseppe Uva (pestato a morte in Questura e finito come Federico Aldrovandi e Stafano Cucchi), scelta che è costata al regista l'ostracismo da parte degli acefali sindacati di Polizia (sai che perdita…).
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