Regia di Ascanio Celestini vedi scheda film
«Com’ero buffo quand’ero un uomo in carne e ossa. Come sono contento, ora, di essere diventato un burattino di legno». Ribaltando l’assunto collodiano, Celestini enuncia il senso che vorrebbe attribuire al pellegrinaggio del suo protagonista tra i cunicoli di un’umanità piccola, abietta, eppure tenera e meritevole di compassione. Nicola recita monologhi da teatro dell’assurdo in bar fatiscenti, entra in contatto con truffatori e prostitute, papponi e sbirri violenti, beve litri di alcol e investe un pedone. Il tutto senza un barlume di logica, né di nonsense. Il tutto a casaccio, in un cantico dei miserabili scandito da un lirismo d’accatto (l’Ave Maria di Schubert ascoltata dal burattino in carne e ossa a bordo del suo furgone) e da uno sguardo che perde il proprio baricentro dopo pochi minuti, senza mai recuperarlo. La macchina da presa di Celestini è attaccata ai personaggi, ritagliati dal contesto e sbattuti in uno spettacolo di marionette che somiglia più a una barzelletta raccontata male. Ci sono un romano, un milanese e un abruzzese, ognuno con i suoi stereotipi e ognuno osservato con occhio supponente da un girovago delle umane questioni che sorride a ogni abuso e si indigna soltanto quando muore un cane o una guardia pesta qualcuno, in fuori registro del tutto gratuiti. Maneggiare il grottesco non è per tutti: la sposa/diva americana di felliniana memoria, che Celestini ci propina come filo conduttore, ne è la riprova.
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