Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
Peter Greenway ha sempre cercato di coniugare il linguaggio cinematografico con altre discipline artistiche, quali la pittura, l’architettura, la letteratura, sostenendone una capacità espressiva più completa e in qualche modo adattabili ad arricchire l'immagine filmica. Con Il ventre dell’architetto, tocca uno dei punti più alti della sua produzione e della sua idea di cinema, anche per come è stata raffigurata e per come può venire compresa. Un corpulento architetto americano Kracklite, in compagnia della moglie, giunge a Roma per allestire una mostra su di un architetto del 700. Boullee, considerato un rivoluzionario per il suo tempo, ma non troppo produttivo nelle sue opere. Non solo Kracklite si trova invischiato in un ambiente corrotto e meschino affamato dei fondi destinati alla mostra, ma dovrà fare i conti con la crisi del suo matrimonio e con le sue gravi condizioni di salute. Attraverso inquadrature ambientali e giochi di luce e di ombre che diventeranno poi uno dei principali interessi futuri di Greenway con installazioni famose in diverse parti del mondo, il regista non cura con troppa attenzione la storia quanto la contrapposizione dei linguaggi e dei contrasti che connotano la cultura di una società. Il mondo raffigurato, i personaggi, i dialoghi, sono artificiosi, quasi stucchevoli, all’interno di scenari irreali che non coincidono con la presenza di quella tipologia umana, che puzza di marcio, di rancido e di vecchio. Mostrandone l’incoerenza, l’irraggiungibilità amorale, Greenway esalta l’unicità e l’umanità dell’arte, gli scenari impossibili sono quanto più ci sia di reale e di fruibile da parte dell’uomo, che viene invitato ad addentrarsi, ad amare l'’arte, ad uscire da sè. L’insofferenza di Kracklite vuole destabilizzare il sistema, con un sentimento umano e autentico, con una comprensione che aderisce in pieno all’opera dell’architetto Boullee. Nella solitudine, e assalito dai dubbi, Kraklite inizia una relazione epistolare immaginaria con Boullee affidando alle parole scritte la verità e la trasparenza della sua anima. In una scena indimenticabile, Kracklite (interpretato da Brian Dennehy) con un accappatoio bianco entra in una stanza adibita a studio fotografico, nella parete sono appese le immagini che lo ritraggono nel suo soggiorno romano e in realtà mostrano con lucidità lo scorrere e lo stato della sua esistenza facendogli definitivamente rendere conto dell’ implacabilità del tempo, della vita che fugge. La scena maestosamente coordinata dalla musica di Wim Mertens si chiude con l’ingresso della fotografa, vestita come lui che lo avvicina a sé cingendolo con un nastro che da pseudo-cordone ombelicale si tramuta in cappio finendo per fare l’amore, in un disperato tentativo di afferrare un impossibile frammento di felicità e di vita. La rappresentazione della figura di Kracklite è imponente come la sua fisicità, attraverso la quale Greenway vuole raffigurare l’artista Boullee, la spinta assoluta che lo anima e lo fa (pro) creare con la purezza del primo uomo che apre gli occhi e guarda il mondo. Statue, edifici, monumenti diventano animati, strumenti del pensiero, mentre Kracklite in un delirante inabissarsi nella malattia fotocopia corpi marmorei, addomi prominenti, ritratti plastici e inscalfibili, sovrapponendoli al suo pancione malato. Tutti a Roma parlano di morte, dice la moglie, lei è incinta destinata a moltiplicare la specie. Il maschio no, muore, e con lui muore l’arte se l’uomo non se ne riappropria e non l’abbandona in mano all’avidità e all’ignoranza, sembra voler dire il regista. Ma è il dramma umano l’elemento più in evidenza, l’architetto Kracklite come tutti i personaggi del cinema di Greenway non cede al sentimentalismo, non cerca pietà, non viene a patti con nessuno, egli è animato da forti valori interiori ed esteriori che difende e che contribuiscono a formare quell’universo morale che è anche un atto d’accusa contro l’autodistruzione dell’uomo e del suo habitat, attraverso il degrado, l’imbarbarimento, le convenzioni sociali.
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