Regia di Maria Arena vedi scheda film
I bassifondi in pailettes, piume di struzzo e cerone sfatto. Le memorie transgender di un sottosuolo che sarebbe piaciuto a Fedor e Fabrizio, una frase che, da Patti Smith a Tom Waits (il quale cantava che era il pianoforte ad essere ubriaco, non certo lui), sposta l’angolo di visione dal particolare all’universale: un Gesù che si accolli i peccati dell’umanità, come può dimenticarsi di quello spicchio di umanità reietta che sono le puttane (e i femminielli un po’ troppo cresciuti) del quartiere San Berillo di Catania?
E’una quotidianità che si tinge di mascara e verde speranza quella degli abitanti di una via stretta ed angusta quanto può esserlo la prospettiva di un futuro osservato da un binocolo rovesciato. Giorni che si succedono ossessionati dal peso del passato e dalla voce della natura che reclama i suoi troppo ampi orizzonti (Ho fatto la prostituta perché mi piacevano i soldi e l’andare con gli uomini, esplode Franchina/o, il personaggio più sfaccettato e complesso; e in questa affermazione c’è l’orgoglioso adagiarsi sulle pulsioni primarie cui noi normali tentiamo di sfuggire con l’inganno del raziocinio), pezzetti di domani che si frantumano nelle parole cariche di promesse di un assessore, anch’egli, indiscutibilmente, travestito da Cid liberatore, nel corso per badanti che fungerà da mera cartina di tornasole della tendenza alla impossibile normalità (occuparsi dei corpi in disfacimento degli altri, per tenere a bada le proprie membra, le proprie anime in necrosi), lacerti di presente che hanno la sola leva pitagorica della marchetta, stemperata in una religiosità che diventa pedaggio alla superstizione (ci sarà l’ennesima Via Crucis, alla resa dei conti, le solite violenze altrui, gli sfottò, al limite i baci distratti ed innocenti, benchè larvati da un vivi e lascia vivere prossimo alla superficialità, del postino o del vicino che guardano, tollerano, ma comunque passano e se ne vanno).
Gesù è morto per i peccati degli altri è interessante nel suo presentare la vita snocciolata, in gesti e pratiche che poco o nulla hanno di apotropaico, di esseri umani ai margini della società, pecore nere di famiglie ancora affettuose (quando e se esistano) o scherzi di un destino che opera chirurgicamente la sua ghettizzazione. Trasmette qualcosa, nella misura in cui è capace di non giudicare e di, semplicemente, presentare le bizzarrie della necessità en travesti che, tuttavia, non offuscano sogni e segni, pur ontologicamente sgraziati e grammaticalmente traballanti. Quando il già citato Franchina/o, seguita da un reporter in sospetto di sciacallaggio travestito da compiacenza e comprensione, enumera i fallimenti della sua vita, le stazioni della personale via della croce, in un linguaggio colorito in cui è comunque facile scoprire aneliti alla normalità al contempo facili da pensare ed impossibili da vivere, il documentario coglie nel segno. Quando Wonder, il più bello ed aitante della compagnia, sgrana gli occhi grandi non per compiacere le altrui voglie ma per esprimere l’inesprimibile desiderio di cambiare vita, viene da pensare a quanto complicato sia modificare le coordinate di una via che altri hanno tracciato per noi, poveri Hansel e Gretel (Wonder vorrebbe cambiare vita, noi, più modestamente, il cellulare). Il film pecca un po’ nelle scene di raccordo, lunghe e poco incisive, per quanto ben girate (la processione, i corsi professionali) e nella insistenza su una rappresentazione di questi tanti sé, in cui, seppur a tratti, pare scorgersi una certa posa, una qualche mancanza di spontaneità. Tutto il mondo è probabilmente paese per il patchwork, la melassa da reality: evidentemente anche San Berillo, Catania.
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