Regia di César Acevedo vedi scheda film
Un uomo percorre a piedi un ampio rettilineo sterrato. Ripreso in campo lungo, lo si vede prima defilarsi e poi letteralmente sparire dietro la nuvola di polvere generata dallo sfrecciare di un camion. È passato sì e no un minuto dall'inizio, e già il regista César Augusto Acevedo ha giustificato il titolo del proprio lungometraggio d'esordio e dato un saggio di quello che ne sarà il tema visivamente dominante: La Tierra y la Sombra, la terra e l'ombra, dove la terra è quella degli immensi campi coltivati a canna da zucchero che dominano la valle del Cauca, in Colombia, e l'ombra quella provocata non solo dal passaggio degli automezzi, ma anche e soprattutto dalla cenere che sembra piovere dal cielo ogni volta che a queste piantagioni viene dato fuoco per agevolare le operazioni di raccolta.
L'uomo che si era visto sparire tra la polvere riappare poco dopo alla porta di quella che era stata la sua abitazione prima che, diverso tempo addietro, la lasciasse per andarsene via. Ad aprirgliela è il nipote di sei anni che non aveva mai conosciuto, il quale, dopo le presentazioni di rito, lo conduce al capezzale del proprio padre, ovvero del di lui figlio, che a furia di respirare quell'aria avvelenata si è giocato i polmoni e ora passa le giornate a letto, impossibilitato ad uscire. Convocato contro la volontà della moglie a suo tempo abbandonata ed ancora livorosa, l'uomo torna dunque a fare la propria parte nella famiglia, delegato a tenere in ordine la casa e a badare al nipotino e a quel figlio malato, mentre lei e la nuora ne fanno le veci sui campi, al servizio degli stessi latifondisti che lo hanno di fatto condannato a morire, che se ne fregano del suo stato di salute, e che quotidianamente tirano la corda per rinviare il pagamento di stipendi già miseri.
Presentato alla Semaine de la Critique di Cannes 2015, dove ha vinto la Camera d'Or, ovvero il riconoscimento alla migliore tra tutte le opere prime in gara nelle diverse sezioni del festival, La Tierra y la Sombra è interpretato egregiamente da un manipolo di attori prevalentemente non professionisti (le sole eccezioni sono rappresentate dalle due protagoniste donne, Hilda Ruiz e Marleyda Soto), e racconta la deriva di una famiglia di contadini traviata in partenza da problemi al proprio interno e travolta poi definitivamente dalle storture del progresso e dalla negligenza di uno stato incapace di fornire alla propria gente prospettive di alcun tipo, od anche solo strumenti di difesa in ambito lavorativo.
Acevedo, che ne ha scritto la sceneggiatura come tesi di laurea partendo da spunti autobiografici, punta il proprio sguardo sul lato umano di ogni avvenimento, si mantiene su un piano di realismo estremo e si sofferma su una quotidianità fatta di gesti semplici e recriminazioni necessarie, di dialoghi scarni e riprese prevalentemente statiche, accompagnando i personaggi - con passo debitamente dolente - alla scoperta delle proprie emozioni più riposte; il tutto caricando la pellicola di chiare istanze politiche, ambientaliste e identitarie, ma senza per questo appesantirla né affogarla nella retorica, anzi affrancandola dai cliché del cinema 'civile' grazie al fondamentale apporto di Mateo Guzmán alla fotografia, capace di ammantare le immagini in un'atmosfera che nei momenti più cupi fa pensare ad una sorta di western apocalittico: un western senza pistole né fucili al servizio di un'apocalisse fondamentalmente privata, con le nubi tossiche prodotte dal menefreghismo dei forti ad incombere sui destini di chi, debole per sclatta, per sperare di sopravvivere è costretto in prima battuta a barricarsi, e in seconda ad azzardare fughe disperate verso nessun dove.
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