Regia di Adriano Valerio vedi scheda film
Un agronomo italiano viene assunto da un'impresa agricola della Romania più profonda e dimenticata. Cercherà di risollevare l'azienda in crisi, e di imbastire un traballante rapporto sentimentale con una ragazza. Ma la precarietà affligge tutto e tutti.
E' un film minimalista in modo programmatico: nei luoghi, nelle situazioni, nei personaggi. Anche la vicenda è minimale, e non ha un punto di approdo; i perde o si attarda in meandri senza meta, come un fiume in pianura che, dopo molte anse, finisce in palude.
Un'idea del genere non la trovo sbagliata di per sé, anzi. Ma qui, secondo me, il regista fa un eccessivo ricorso alle sequenze non narrative, che forse si possono definire illustrative. Alcune di esse le trovo inutili e senza significato. Se l'idea era comunicare qualcosa, come un sentimento o una metafora, secondo me sono fallite. In alcune di esse si respira una certa aria di “Satantango” di Bela Tarr, non so se in modo voluto o meno.
Anche gli attori recitano in modo minimale, con uno stile abbastanza frequente nel cinema italiano degli ultimi anni, che implica anche lo smangiucchiare le parole, credo intenzionalmente. Così, qualche battuta qua e là va persa. Non pretendo una dizione da giornalista del telegiornale, ma almeno una pronuncia sufficientemente chiara, quella sì.
Di apprezzabile ho trovato l'ambientazione non convenzionale, e la trama originale. La cifra dell'ambiente – italiano e rumeno – è lo squallore e il grigiore, anche meteorologici; in Italia di una Bari periferica e invernale; in Romania di una comunità agricola immersa nelle brume di una zona sperduta vicino al Mar Nero, non ancora ripresa dall'economia collettivistica del regime. Molti gettano la spugna ed emigrano, altri cercano di ostacolare lo sviluppo, ma per fortuna certi non demordono e cercano di costruire un futuro migliore.
Quanto agli attori, i due protagonisti vivacchiano e fanno i carini; funzionano meglio, anche come personaggi, il vecchio agricoltore rumeno, e Piera degli Espositi, nella solita particina.
La sufficienza forse c'è, ma la velleità autoriale pesa, e alcuni passi inutili andrebbero, secondo me, tagliati. Il cinema italiano avrebbe bisogno di una buona iniezione di energia. E di umiltà.
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