Regia di David O. Russell vedi scheda film
Da paura.
Provare a vestire i panni di Joy Mangano è come immergersi in un incubo.
Che poi l’asserito genere commedia vuole camuffare a tutti i costi, senza riuscirci.
I protagonisti (in parte) e le situazioni (per altra parte) alla Il lato positivo possono quasi alludere a toni più leggeri (a tratti sconclusionati), sopportabili. Ma la verità è che si esce dalla visione di questo film se non stremati e con le ossa rotte, quanto meno in difficoltà.
Il nord-est egli Stati Uniti è una terra aspra e dura (ma non che l’Ovest sia da meno).
La famiglia di Joy non è che non sia una famiglia perfetta; è solo è una pentola a pressione pronta ad esplodere in ogni momento… ma tenuta assieme da un collante formidabile.
Joy, una lavoratrice-casalinga che – pur con grandissime doti, possibilità e sogni nel cassetto – non può fare a meno di usare tutti i giorni quella pentola, per sfamare la propria prole.
Ed il mondo che li circonda è una grande gabbia di iene e avvoltoi, pronti ad approfittarne (di quella esplosione) alla prima occasione.
Una gabbia anche soprattutto per il ruolo da padrone svolto dalla televisione; mezzo che fa e disfa a piacimento le sorti commerciali di un prodotto, come l’esistenza di orde di casalinghe disperate.
Disperazione, ovvero lacrime e sangue (le parola “determinazione” e “sacrificio” non rendono l’idea) a condire (infatti) il tutto.
E poi il lieto fine, che però non è per tutti, anzi.
E questo – detto per inciso - in America, il paese delle grandi opportunità, dove tutto è possibile.
Figuriamoci altrove.
Per la serie; no grazie.
Comunque, cinismo pandemico (ma in remissione) a parte, il film riesce ad essere abbastanza sopportabile.
La grinta della protagonista è incoraggiante (visto il risultato però) e l’approccio moderatamente surreale (quasi grottesco a tratti) del regista stempera la tensione del dramma (non l’inquietudine) e ridimensiona le (pur gradite) velleità sociologiche. L’interazione corale del gruppo scomposto di familiari raggiunge un certo equilibrio sulla scena (ciò che dubito sia stato possibile nella vita reale della protagonista). La presenza bella e indomabile di Joy (grazie ad una splendida J.Lawrence) non perde mai di smalto (anche quando la disperazione è concreta) e questa è un’impronta che rimane impressa.
La mole immensa di difficoltà in un contesto ostile, la figura stessa di Joy (paladina degli umili ed esempio di tutti solamente per essere stata, con faticoso successo, imprenditrice di sé stessa), ma anche e soprattutto la psicoanalisi di una Nazione filtrata dal mezzo televisivo. Ecco Joy di D.Russel. Un tipo inverosimile di “commedia”. Una versione più aspra del solito di American Dream.
Eppure il risultato è discreto e vale una visione.
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