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Velluto blu

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su Velluto blu

di AtTheActionPark
10 stelle

Nel suo libro dedicato a David Lynch [1], Pierluigi Basso Fossali individua nel “pensiero figurale” uno dei nodi cruciali per comprendere il funzionamento della controversa opera del regista statunitense. Richiamandosi a Lyotard, il semiologo spiega che, nel cinema di Lynch, l’interazione tra mondi sensoriali diversi attiva «un amalgama plastico-figurativa […] che sposta sostanzialmente la proposta ermeneutica, non accontentandosi, ad esempio, di un livello letterale e di uno allegorico, ma si interpone tra di essi» [2] La complessità del cinema di Lynch – e, in questo caso, di Velluto blu – nasce proprio dalla sua natura interstiziale, che travalica la natura prettamente cinematografica del film-in-sé, per farsi “altro” – si potrebbe parlare quasi di cinema post-cinematografico. È nel pensiero e nella mente del regista che avviene già questo superamento, che caratterizza l’opera lynchana come opera figurale. Soprattutto, l’uso dei “segni” che compie Lynch, ne fa piuttosto un pittore d’immagini e di sensi che stridono tra loro, spostando il suo cinema a livelli, prima di esso, inediti nel panorama cinematografico. E non sono solo le citazioni pittoriche a fungere in questo senso (benché ne potenzino l’effetto). Ne sono infatti investiti, tanto le soluzioni filmiche (il sonoro, in particolare), quanto i due principali “luoghi” su cui in cinema di Lynch agisce: gli spazi e i corpi.
Gli spazi lynchani sono i primi che subiscono la torsione figurale messa in atto dal regista, risultando dei cortocircuiti sensoriali plurisemantici. In essi convivono iperrealismo e astrattismo, impressionismo ed espressionismo, Edward Hopper e Francis Bacon. Essi sono luoghi infernali contraddistinti da una tavolozza di colori accecante e insostenibile (la casa di Dorothy ne è un esempio). Così come i corpi, cui il regista si approccia non tanto da fenomenologo, quanto da astrattista. Corpi immobili, svuotati della loro vitalità (come i due cadaveri nell’appartamento di Dorothy alla fine del film, o i corpi seduti delle prostitute al Pussy Heaven), oppure deprivati della loro valenza potenzialmente erotica – come scrive Riccardo Caccia nel suo «Castoro» dedicato al regista, «il corpo nudo di Isabella Rossellini è solo “carne”». Ma i corpi sono anche “filmicamente” sezionati, per metterne in risalto le loro funzioni sensoriali, creando in questo modo un corrispettivo (sempre, comunque, teso fino al parossismo) col dispositivo cinematografico. Quanti occhi, orecchie e bocche, slegate dai loro corpi, vediamo nel film? E, parallelamente, quanto il film agisce sul visuale e sull’uditivo, tentando di raggiungere una deformazione del senso? Jeffrey osserva da quel «dispositivo voyeuristico» - sempre per riprendere la terminologia del libro di Fossali -  che è l’armadio a muro, confondendo (anche hitcocockianamente) il proprio ruolo di investigatore in quello di voyeur. Ed è proprio Jeffrey uno dei “luoghi” in cui l’ambiguità lynchana ha maggior intensità. Sandy, infatti, non a caso chiede se il suo nuovo amico sia un “bravo ragazzo” o soltanto un maniaco. Ambiguità confermata, inoltre, da quel pettirosso nella conclusione del film: pettirosso  che è, sì, realizzazione del sogno di Sandy, eppure, la sua natura meccanica (e, perdipiù, ripreso nell’atto di divorare spietatamente il bug – animale che ritorna, più volte, nel film) ne mette in risalto il “lato oscuro”. Velluto blu, infatti - cercando di allontanarsi dal manicheismo di cui spesso è accusato Lynch - mette in scena universi che si compenetrano e si confondono continuamente: il bene e il male. Il cinema di Lynch è, come scrive giustamente Zizek, un cinema del «sublime ridicolo», attraversato da figure e situazioni eccessive [dove “il nero è completamente nero, e la luce è accecante”]. Ma sono i personaggi stessi ad essere ambigui, doppi. La candida Sandy, pateticamente caratterizzata da abiti rosa, capelli biondi, occhi azzurri – simboli che rimbombano e frastornano nel loro eccesso – non manca di mostrarsi in un atteggiamento contrastante, quando il suo volto si contrae oscenamente in uno sguardo di disgusto nel vedere Dorothy, nuda, tra le braccia di Jeffrey.
Il film racconta quindi il passaggio verso un “lato oscuro” che si cela dietro le apparenze – il “velluto blu” dei titoli di testa che nasconde qualcosa. Un passaggio che avviene, tra l’altro, attraverso (ancora) una parte del corpo: un orecchio mozzato. Un movimento della m.d.p. che penetra (quasi fallicamente) all’interno dell’orecchio (in sovraimpressione), per uscirne, poi, una volta risolto l’intreccio (un procedimento simile ritornava già ossessivamente nel primo film-incubo di Lynch, Eraserhead). Una discesa nelle tenebre accompagnata anche dai continui richiami ad un genere cinematografico, il noir, rivisitato attraverso l’uso intensivo del colore e della risemantizzazione di molti archetipi. È, inoltre, la situazione onirica (come nel cinema noir) a dominare il mondo (o i mondi) di Velluto blu: Frank Booth, lo psicopatico interpretato da Dennis Hopper, forse non a caso, prima di picchiare Jeffrey, canterà una canzone intitolata In Dreams: «In sogno passeggerò con te, in sogno parlerò con te, in sogno sarai mio, per sempre, nei miei sogni».  
 
 
[1] Pierluigi Basso Fossali, Interpretazione tra mondi, Edizioni ETS
[2] Ibidem, cit., pg: 19

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Ultimi commenti

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  2. Travis
    di Travis

    Capolavoro weird da molti ancora poco compreso. L'influenza su tanto cinema anni '90 e non solo arriva da questo film, ma anche da Cuore Selvaggio, seppur meno "perfetto" di Velluto Blu. Si intravedono già i primi segnali che portarono poi Lynch a Twin Peaks, e poi Jeffrey sembra in fondo una giovanissima e ancora un po' goffa ed impaurita versione dell'agente Cooper. Gran bella opinione!

  3. lorebalda
    di lorebalda

    Ciao @At. Ho letto con grande interesse questa opinione, ma anche con un po' di perplessità. Lo dico subito: per me Velluto blu non è un capolavoro. Un film interessante, con una prima parte molto bella e fascinosa, allusiva e inquietante, che promette molto e che però alla fine realizza poco. I riferimenti pittorici (Bacon, Hopper) sono inappuntabili, e sono d'accordo quando parlate dell'immediatezza quasi oscena di certi segni. Ma continuo a trovare quel "passaggio" dalla luce all'oscurità, dal Bene al Male - momento centrale del film - un po' piatto, e portato avanti in maniera (almeno per me) poco interessante. Era interessante, e morbosamente affascinante, nel film, la relazione fra la Rossellini e Jeffrey, a mio parere poco approfondita; e sono geniali le improvvise divaricazioni dal reale, il leitmotiv delle labbra rosse, l’uso violento e potentemente espressivo dei colori. Mentre è solo fastidioso, e scontato, il personaggio di Frank, così ridicolmente eccessivo, così grottesco (certo, era proprio quello che voleva Lynch, mi direte - così come voleva che il Pussy Heaven sembrasse così squallido, povero, mediocre: eppure mi sembra che tutto questo stoni assolutamente col resto del film, che forse voleva suggerire la fascinazione per il mondo oscuro e torbido di Frank). E il paradossale happy ending, più che moltiplicare gli interrogativi, mi sembra che finisca per fare del film soprattutto uno sgarbo grottesco e bizzarro inflitto al sistema americano tradizionale da un regista che è costretto, controvoglia, a operarvi dentro. Tanto che anche gli aspetti sperimentali che hai ben notato nella tua recensione mi sembrano, in fin dei conti, poco importanti e un po’ posticci, oltre che largamente contenuti, in un film tutto sommato quasi (sottolineo il quasi) tradizionale.

  4. AtTheActionPark
    di AtTheActionPark

    grazie @travis per l'apprezzamento. Anche secondo me, l'influenza di Lynch è stata fondamentale, e credo lo sia stata ancora di più negli anni '00, grazie alla coppia di film Strade perdute/Mulholland Drive, che hanno influenzato moltissimi film che ne hanno ripreso le strutture oniriche e scomposte (pur, a mio parere, non raggiungendo mai quei vertici). ciao @lorebalda! Allora ti chiedo: perché il personaggio di Frank Booth e la seq. al Pussy Heaven stonerebbero? A me non danno proprio questa impressione, anzi (nella mia opinione ho provato anche a motivare questi personaggi). Secondo te, la prima parte in cosa differisce rispetto la seconda? Che sia un film quasi tradizionale e contenuto (!) è un'idea a mio parere un po' azzardata, anche perché bisognerebbe soffermarsi rispetto a "cosa" sia tradizionale.

  5. lorebalda
    di lorebalda

    Dico questo: il film secondo me vuole esprimere la fascinazione che esercita questo mondo oscuro e torbido su Jeffrey e, di conseguenza, anche sullo spettatore, che dovrebbe identificarsi col protagonista totalmente o quasi (non a caso, Jeffrey è spesso spettatore degli eventi, soprattutto all'inizio). Questa fascinazione, almeno per quel che mi riguarda, è rimasta al livello delle intenzioni, o meglio, ho potuto subirla esclusivamente nella prima ora di film. Quando Jeffrey entra nella casa di Dorothy, si respira un'aria malsana, torbida e appiccicosa, che ti rimane addosso: in altre parole, il film ti coinvolge, partecipi, ti senti (positivamente) a disagio. Sei Jeffrey, sei dentro gli eventi, senti il rischio, la paura e il piacere dell'essere voyeur. Poi, nella seconda parte, quando questo processo di fascinazione doveva compiersi, secondo me, in modo decisivo e irreparabile, facendo "precipitare" lo spettatore, il film subito mette una "parete" che ci porta al sicuro: per questo penso che la visione dell'"altro mondo", oscuro e torbido, non sia all'altezza di quel che promettono le sequenze "intraviste" nell'appartamento di Dorothy. In quest'ultima parte, il talento di Lynch mi è sembrato poco visionario (si salvano il finale genialmente ironico, e quel lampo della Rossellini nuda che abbraccia Jeffrey), e ho avuto la spiacevole sensazione di essere sempre al riparo, al sicuro: il male che Lynch mette in scena è così squallido e irreale, brutto, senza vita, così poco doloroso e così poco affascinante, che paradossalmente diventa poco interessante, impenetrabile (per me). Ovvero: posso guardare tutto con distacco, non rischio più di precipitare, non mi metto più in discussione. Non sono più nella casa di Dorothy, non ho più timore di essere scoperto; e non sono neanche dentro l'azione. Sono al sicuro. Per questo, con una provocazione naturalmente, ho scritto che Velluto blu è un film quasi tradizionale: tolta la prima parte, è un film che non è né disturbante né visionario - abbastanza innocuo, direi.

  6. AtTheActionPark
    di AtTheActionPark

    Ciao Lore, come al solito la tua argomentazione è notevole e intelligente. Mi trovi d’accordo quando individui nella scena dell’armadio uno dei momenti più intensi del film (e sul parallelo spettatore/personaggio). A mio parere, il senso di distacco che ti provoca il film potrebbe essere dovuto ai toni utilizzati da Lynch nel descrivere i suoi “mondi”. A mio parere, bene e male sono trattati in maniera abbastanza simile – ed ingenua, perché voglio sottolineare che in Lynch c’è anche una dose di “ingenuità” che si contrappone alla ricercatezza (figurale) della messa in scena: come hanno scritto in molti, bisogna sempre ricordare che Lynch non è un regista “intellettuale”. Secondo me, trovi poco stimolante la seconda parte perché mette in scena un “male” che è tanto ridicolo e grottesco come è il bene nella prima parte – e che, non a caso, invece non ti aveva urtato: ma pensa solo a scene come i bambini che attraversano la strada a ralenti; alle zie di Jeffrey che guardano comodamente (tu diresti, “in maniera sicura”) il male rappresentato in un film nella loro televisione in salotto; a personaggi come il papà di Sandy, assolutamente bonario se non addirittura goffo (come saranno tantissimi altri personaggi lynchani); e Sandy stessa, che entra nell’inquadratura dal buio più totale, e se ne contrappone, mettendo in risalto i suoi “segni” di cui ho già parlato. Ecco, secondo me, dopo tutto queste premesse, non ci si può stupire poi che “quel male” verrà presentato così (il “ridicolo” Frank Booth, i suoi ridicoli amici che si mettono a cantare in playback – scena, tra l’altro, che secondo me sottovaluti nella sua portata, dato che è centrale per come esemplifica, anche in maniera spettacolare, un discorso sulla macchinazione, che è tra le tematiche del film -, i dialoghi grotteschi, ecc.), soprattutto dopo che il “bene” è stato mostrato in maniera pressoché analoga. Ed è per questo che, secondo me, si dovrebbe accettare o rifiutare in toto il mondo (o i mondi) di Lynch e la sua poetica (che può piacere o meno, ma è assolutamente coerente). Non ci sarà mai un male come, immagino, lo concepisci – o lo “preferisci” - tu, perché il cinema di Lynch, così anti-intellettuale e anti-fenomenologico, è altra cosa. Non che, per questo, non metta in campo sempre e comunque dei “discorsi”, ed è su questo che insisto sempre: non è un cinema “assente”, ma “presente”, però in un altro senso

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