Regia di Christian Vincent vedi scheda film
Meritatamente premiato ai "César" e a Venezia, un capolavoro di sottigliezza e intelligenza. Prova magistrale di Fabrice Luchini.
Giustamente premiato a Venezia nel 2015 per la miglior sceneggiatura e per la migliore interpretazione maschile, “L’hermine” di Christian Vincent può vantare numerosi altri pregi, a cominciare da una regia sobria e meticolosa nel descrivere lo svolgimento, sia in aula che dietro le quinte, di un processo per infanticidio. Lungo l’intero svolgimento della pellicola, lo spettatore è abilmente invitato a far parte della giuria. Anche se dominato dalla prestazione sottilmente carismatica di un Fabrice Luchini sempre più in stato di grazia recitativa, è un film corale, un ingranaggio perfetto di relazioni libere e civili tra i vari personaggi, siano essi membri della corte, avvocati, testimoni o spettatori. Nulla è mai urlato, la vicenda scorre veloce in un susseguirsi di tempi e dialoghi impregnati di normalissima umanità. Il presidente della corte riconosce tra i membri della giuria una donna medico che anni prima lo aveva curato durante una lunga degenza in ospedale. Una donna che, in un momento di lunga sofferenza, aveva finito con l’amare segretamente. Sembra il punto di partenza di una storia con chissà quali risvolti sentimentali ma, imaspettatamente, il film resta fedele all’iniziale introduzione del caso in esame, un delitto quasi impossibile da decifrare, un delitto che chiama in causa le coscienze impotenti di chi ha ugualmente il dovere di esprimere una sentenza.
Impossibile comunque non soffermarsi sulla figura del giudice incarnata da Fabrice Luchini, a parer mio il miglior attore francese attualmente in circolazione. Digiuno di vicende giudiziarie, gli è bastato un incontro con un vero magistrato di corte d’assise per mettere a punto alcuni dettagli tecnici e si è lanciato in un ruolo inedito, come se lo avesse già inperpretato decine di volte. Siamo agli antipodi della filosofia dell’”actors studio”. Fabrice Luchini rifugge da qualsivoglia “full immersion” nella psicologia del suo personaggio, affidandosi anima e corpo ad un’ottima sceneggiatura, a dialoghi scritti in punta di penna e confidando ovviamente nel suo naturale talento recitativo. Il ritratto del magistrato noto nel suo ambiente per la sua accentuata severità cede via via il passo a quello del professionista prossimo al pensionamento, divenuto quasi forzatamente o anagraficamente saggio e leggermente scorbutico, ma tutt’altro che rassegnato o disilluso. Le parole che rivolge ai giurati alla vigilia della sentenza ne svelano l’acume, raccontano le conclusioni cui giunge un giudice che crede nella giustizia pur conoscendone gli umani limiti. Grazie alla donna che ritrova inaspettatamente dopo anni, si scopre capace di sentimenti amorosi profondi quanto disinteressati. Il finale non ci racconta come andrà a finire, cosa in fin dei conti secondaria rispetto alla bellezza della relazione umana che è stata sottilmente tratteggiata.
Ho parlato di film corale e anche questo aspetto va sottilineato. Accanto a Fabrice Luchini, non ci sono antagonisti, spalle o comparse, ma personaggi essenziali, tutti di encomiabile naturalezza e grande bravura. Sidset Babett knudsen, attrice danese qui alla sua prima esperienza nel cinema francese e che ho avuto il modo di apprezzare solo una volta in “Dopo il matrimonio” di Susan Bier (2006), interpreta con pacata intensità il suo ruolo di donna amata a sua insaputa. La sua reazione non è né di stupore né di trasporto, né di ostilità. Ascolta e accetta, si fa complice di un sentimento inatteso e forse condiviso. In un bellissimo incontro a tre, sarà la sua giovane figlia a trovare le parole che spiegano quanto sta accadendo ai due adulti. Un momento di grande recitazione, nel quale si confrontano la scioltezza intellettuale delle nuove generazioni e quel poco che resta di genuinità emotiva delle più vecchie. Per la sua partecipazione nel ruolo della figlia, un applauso particolare va a Eva Lallier, qui alla suo prima esperienza in un lungometraggio, un esordio breve ma decisamente promettente. Tra i membri della giuria, si fa nuovamente notare il personaggio interpretato da Corinne Masiero, da me ammirata come protagonista del duro ed eccellente “Louise Wimmer” di Cyril Mennegun (2012). Comunque, lo ripeto: ogni attore di questo gioiello cinematografico meriterebbe una menzione particolare. In tutto il film, non riesco a trovare un difetto e questo spiega le mie soddisfatte cinque stelle!
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