Regia di Christian Vincent vedi scheda film
La corte (2015): locandina
Ancora una volta oggetto del desiderio, la Sidse Babett Knudsen di The Duke of Burgundy; ma niente farfalle né completini fetish né giocherelli morbosi (e tediosi): in La corte, l'attrice danese - volto luminoso, portamento elegante - è il ricordo di un sentimento che riaffiora, nel momento in cui viene chiamata come giurata in un importante processo che vede il rigoroso giudice Fabrice Luchini presidente della corte d'assise, che tempo prima ne era stato paziente (e innamorato) a seguito di un incidente. Un ricordo, ma non solo: è come se in quegli occhi di donna così limpidi e positivi, il "signor Presidente" riflettesse la sua umanità, la sua natura (lui che è costantemente bersaglio del chiacchericcio gossipparo di colleghi e sottoposti); un'ancora nel mare d'insensibilità che si è costruito, come il trolley che porta sempre con sé è un legame con le cose del quotidiano. Un ritratto, quello dell'uomo di legge, che cresce e svela soggetto, sfondo, contorni, sfumature, dettagli con l'avanzare del dibattimento - luogo naturalmente freddo e alieno, a maggior ragione se il caso in questione riguarda il tragico destino di una bambina -, e di tutti i rituali e meccanismi anche burocratici che ne governano l'esistenza. Materia processuale - che occupa probabilmente troppo spazio - come elemento, non di rivelazione (perché il fine non è accertare la verità bensì valutare azioni e comportamenti in determinati contesti) ma di personale ricostruzione identitaria. Così, un uomo ritenuto - in primis dallo spettatore - bidimensionale arida arrogante figura ligia al sistema che presiede, si scopre essere invece personalità complessa, sfaccettata, non priva né di anima né di sussulti vitali. Illuminante che il cuore del processo (di crescita/accettazione) personale avvenga fuori dalle aule: il tête-à-tête al ristorante tra l'uomo e la donna - bellissimo, sospeso tra dubbi tangibili e tumulti interni - scalfisce la mera superficie didascalica di parole, dialoghi e ricordi per affondare nel cuore piccolo ma pulsante delle cose. E non è che tutto sia chiaro perché, semplicemente, si spiegano fatti e svelano retroscena: è che si percepiscono le vibrazioni nell'aria, gli umori e il senso di indeterminatezza negli occhi dei due. Incontro decisivo ed emblematico come fosse l'arringa risolutiva, il coup de théâtre che apre le danze. Finale, sempre in levare, in sottrazione, tra il non detto e il non mostrato: un altro naturalissimo gioco di sguardi folgorante tra Fabrice Luchini e Sidse Babett Knudsen, perfetti nella loro autenticità.
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Insomma se non ci fosse il Cinema degli (odiati?) cugini d'Oltralpe bisognerebbe inventarlo. Parola chiave, quella dell'autenticità, che ci dà la misura di come ci si accosti alla realtà (non solo naturalistica ma anche emotiva) con una messa in scena ed una direzione degli attori che proviene da una lunga tradizione affinata da maestri come Resnais, Rohmer e Sautet. Dalle nostre parti il meglio che possiamo dare è Soldini. Sigh!
Hai perfettamente ragione: inutile stare ad esaltare il caso di turno nostrano (che poi è sempre la solita minestrina malconcepita e malgirata). E no, proprio per come sanno fare commedia (e genere), i cugini proprio non riesco a odiarli!
Ciao Gregorio, finalmente un film che conosco tra le tue recensioni. Quello che leggo qui ora lo condivido (per la verità somiglia tanto a quello che avrei voluto scrivere anch'io quando vidi il film in sala poi chissà perchè rinunciai).
Salvo un punto: quando dici che la materia processuale occupa probabilmente troppo spazio. E forse interpreti un parere diffuso, che non è il mio: ammetto che la mia passione per i processi sia spiccata ma un altro punto a favore del film per me è proprio che fa vedere come l'umore di chi giudica possa influire sul verdetto. È quello che avviene in conseguenza del /subito dopo il discorso di lei in aula: il giudice si "sveglia" dal suo torpore e non finirà come al solito con una condanna.
Punto di vista comprensibile. E condivisibile. Più che altro, imputavo al "troppo spazio" - di un elemento comunque centrale, fondamentale - un'alterazione della tenuta. In fin dei conti trascurabile: la riuscita dell'opera (di scavo) non è in discussione.
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