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Il Vangelo secondo Matteo

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Il Vangelo secondo Matteo

di (spopola) 1726792
10 stelle

Pasolini restituisce appieno la violenza, lo scandalo e la bellezza della parola di Gesù e cattura da laico convinto, il vero e proprio “mistero” del sacro, riportando il tutto alla “ragione “ originaria della finalità da raggiungere, quella di diventare la “veritiera” testimonianza anche visiva di una immensa tragedia del dolore collettivo.

Ho fatto un film epico-lirico in chiave nazional-popolare, in senso gramsciano.  Ho potuto fare il Vangelo così come l’ho fatto proprio perchè non sono cattolico, nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto) né le inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo […] come una ricaduta della condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo). Così raccontava la sua opera Pier Paolo Pasolini all’indomani della presentazione abbastanza contrastata alla Mostra di Venezia del 1964 (Gran premio della giuria  e sputi dei fascisti in sala).
Indubbiamente è una pellicola importante e fondamentale che rappresenta un po’ la “summa” inevitabile e necessaria  di tutte le esperienze fatte fino a quel momento dal regista in quello che può essere considerato a tutti gli effetti il suo primo periodo cinematografico (inauguratosi magnificamente con Accattone),  e sigla per questo anche la chiusura di un ciclo ormai davvero e definitivamente concluso. Credo però che intenda anche essere una sfida e una “provocazione” per rispondere  “a suo modo”, alle critiche e agli attacchi ideologici e censori che aveva dovuto subire con inusitata violenza in quegli anni.
Non dimentichiamoci infatti che questo Vangelo profondamente religioso, ma tutt’altro che metafisico,viene immediatamente dopo La ricotta (episodio di Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello) che raccontava un’altra passione,  quella del sottoproletario Stracci,  per la quale fu portato addirittura in tribunale (e condannato in prima istanza) con l’infamante accusa del tutto gratuita di “vilipendio della religione”, miopia palese di chi non aveva voluto leggere e capire la sottesa, profonda “umanità” dell’assunto (la salvezza affidata soltanto alla “purezza”, che era tema centrale anche di Accattone) di questa acuta e dolente riflessione in chiave “cristiano-marxista” tutt’altro che blasfema, dove la noia del regista (interpretato dal “vero” Orson Welles intento a dirigere una stanca troupe cinematografica per portare a termine una superproduzione in costume sulla morte di Cristo), la vacuità delle domande dell’intervistatore proteso in ogni modo a ricavare un senso dall’attività “creativa”, venivano  fustigate e contrapposte alla vitalità di un sottoproletario come Stracci - che non a caso morirà poi quasi dimenticato sulla croce - intento soltanto a soddisfare il bisogno elementare della fame.
E’ pur vero che nei gradi successivi arrivò l’assoluzione,  ma questo non riuscì a ristabilire gli equilibri, né tantomeno a calmare gli animi, anzi fu una decisione che suscitò scalpore e pareri violentemente discordanti, contribuendo semmai ancor di più ad esacerbare gli animi e a consolidare nei suoi confronti l’ostilità del conformismo bigotto e delle recrudescenze fasciste che si respiravano già intorno.
La matrice “religiosa” (non in senso strettamente canonico) è stata sempre presente nell’opera di Pasolini, anche se quasi mai riconosciuta in quegli anni da un “osservatorio” anche critico  conservatore e retrivo  come pochi altri, certamente spaventato più dalla statura del personaggio, scomodo per le sue idee e la sua onestà intellettuale, oltre che per le sue “irregolarità” privare presunte o reali che fossero, che non da quanto di scandaloso (o contrario alla morale) si “presumeva” che emergesse da ciò che raccontava sullo schermo, perché come ben si sa, nessuno è  più cieco di chi si ostina di proposito a non voler vedere.
Un evidente  “misunderstanding” dunque  che “doveva” in qualche modo essere chiarito (è una mia personale, opinabilissima interpretazione), e quale mezzo migliore allora se non quello di “ritornare” direttamente alla fonte e rappresentare davvero senza più traslate metafore, la vita e la morte dell’uomo “Gesù” spogliato di tutte le scorie “misticheggianti” dell’usurata tradizione, e riportato alla profonda “essenza” del pensiero?
Il film che  il regista realizza è quindi innanzitutto indirizzato a dare una visione più  realistica del Vangelo di quanto non fosse mai accaduto prima (e proprio con lo straordinario “metro” della verità, Pasolini, rifacendosi in qualche modo all’insegnamento renaniano, risolve con interessanti e originalissime intuizioni ogni problema rievocativo, narrativo e di interpretazione storica, riuscendo così a “raffigurare” del personaggio del Cristo soprattutto  la profonda umanità  egualitaria e “altruista” di cui è intriso il suo “messaggio”, per evidenziare la “statura” terrena e rivoluzionaria della figura nel contesto socio-politico dell’epoca, ma lasciando comunque inalterata al tempo stesso  la grande potenza mistica che comunque emana.).
Lo fa, lavorando soprattutto sullo stile, poiché è prima di tutto proprio la scelta espressiva operata, la severa ricerca filologica che è stata compiuta (che fa i conti ovviamente anche con un impegno ideologico personale mai  disatteso e che qui si esprime con la sua massima potenza) a fare la differenza, l’elemento con cui riesce a restituirci, come mai prima di quel momento era accaduto  (il  Messia di Rossellini è del 1975, e quindi di ben 11 anni successivo)  una visione quasi storicistica delle vicende che culminarono nella crocifissione del Redentore,  rispettando (e onorando) prioritariamente proprio la sua “identità” terrena.
In sostanza è  questa la “novità” sostanziale di un’opera costruita rileggendo un testo evangelico finalmente sfrondato dagli orpelli stratificati del “buonismo” predicatorio fine a se stesso, e senza ricorrere all’usurato utilizzo di ogni possibile elemento iconografico tradizionale ad esso connesso (lavorare sulla “forma”, insomma per arrivare a modificare di conseguenza anche il contenuto del messaggio).
Non vengono però apportate variazioni strutturali di rilievo nella stesura della sceneggiatura: la fedeltà alla scrittura di Matteo è assoluta, autentica e rispettosa anche – e non è una contraddizione – dei valori cristiani e trascendentali  definiti da “quel” testo.
Si cercherà allora anche qui, di fare una analisi per quanto possibile rigorosa, partendo da una posizione osservativa che predilige il riferirsi ai risultati espressivi dell’opera per riscoprirne l’autonomia culturale e artistica, cominciando a soffermarsi prioritariamente, sulla scelta del tutto autonoma , personale e commovente, delle ambientazioni scenografiche e delle descrizioni delle psicologie (due modalità che vanno di pari passo e che si intersecano diventando complementari l’una dell’altra)  che il regista ha fatto ricorrendo ad una originalissima, eccezionale e “drammaticissima” visualizzazione degli ambienti e delle genti che furono testimoni  dirette degli eventi.
C’è stato sicuramente in questo primo faticoso problema “traspositivo” in qualche modo “atemporale” ma  coerente nello spirito al periodo di riferimento, una felice e sicura scelta dei piani umani  (i volti, le atmosfere) sui quali adattare (e plasmare) la semplicità e la grandezza del testo, e se la rozza iconografia è stata – come si à già detto - dimenticata e messa davvero in un cassetto, l’immagine cinematografica  ha sicuramente tratto ispirazione (reinterpretandoli) dai modelli autentici della pittura primitiva e della classicità meno conforme, privilegiando proprio quelli privi di ogni appesantimento “decorativo” (la pittura quattrocentesca è predominante con la sua brutalità realistica che si ritrova con particolare evidenza nelle scene degli indemoniati e del lebbroso, e soprattutto nella straordinaria sequenza della crocifissione, ma c’è anche tutta l’elegia estatica di certe “ascesi” mistiche, per esempio nella scena del battesimo o in quella dell’annuncio finale) con i quali Pasolini restituisce appieno la violenza, lo scandalo e la bellezza della parola di Gesù e cattura da laico convinto, il vero e proprio “mistero” del sacro, riportando il tutto alla “ragione “ originaria della finalità da raggiungere, quella di diventare la “veritiera” testimonianza anche visiva  di una immensa tragedia del dolore collettivo.
E’ questa l’unica accentuazione che Pasolini ha forse tentato (con assoluta, rispettosa attenzione al testo evangelico, ribadisco) ma è anche quella che gli ha consentito di far emergere accanto all’Uomo-Dio, al Messia, l’uomo che lo rappresenta, con la sua infinita capacità di interpretazione (non passiva, evidentemente ma per farsene personale carico) del dolore, della sofferenza e delle ingiustizie umane, una “qualità” che lo rende, nel corso della narrazione, sempre più popolare, quasi l’essenza stessa dell’”amore” e della fratellanza, colui che è dalla parte dei diseredati, degli afflitti, dei poveri dei sofferenti, dei perseguitati, degli “umiliati e offesi”.
Al di fuori di questa valorizzazione anche degli elementi corali di contorno – che tuttavia  non consente di concludere troppo frettolosamente  che la interpretazione del Cristo è qui univocamente orientata verso quella di un “Capo popolare” e di un agitatore delle masse – Pasolini infatti non ha inteso minimamente distaccarsi da ciò che Matteo ci ha lasciato, parole e frasi fedelmente riprodotte, al punto da essere affidate più di una volta alla diretta predicazione di Gesù, senza mediazioni sceniche o “letterarie”, ma con l’ausilio esclusivo della ripresa in primo piano.
Questa soluzione stilisticamente molto coraggiosa, è spesso di forte suggestione anche empatica, come per esempio nella scena della predicazione di Gesù  ai primi discepoli che poi si dipana e si espande nel rappresentarci il loro successivo camminare quasi furtivo nei paesini della Galilea, nelle viuzze, fra le case della povera gente, quel tono quasi “cospirativo” che è poi il modo migliore per evidenziare come il Maestro impartisce la lezione della nuova dottrina per risvegliare le coscienze e tentare così di cambiare il mondo: sembra quasi – in questi passaggi - che il regista riesca a far coincidere il testo di Matteo con l’autobiografia, la passione con l’ideologia, tanto che la parola teologica, pur senza cambiarne una virgola, sembra a volte  diventare una appassionata predicazione piena di fervore, ma senza speranza.
Se il rispetto per la parola ha portato Pasolini verso soluzioni semplici e lineari come queste (assolutamente funzionali), la resa narrativa complessiva è però complessivamente più ricca, composita e  suggestiva , e si esprime in tutta la sua potenza soprattutto nelle sequenze in cui il regista non ha avvertito il “vincolo del rispetti filologico del verbo” e ha potuto di conseguenza compiere un autonomo e personale lavoro di ricerca formale ed espressiva.
La nascita di Gesù, per esempio, che è rappresentata come un vero e proprio “autentico” documentario “in presa diretta” che testimonia la condizione sociale di Giuseppe e di Maria, ci evidenzia  le loro umilissime condizioni di vita.
Sono sorte a suo tempo principalmente a causa di questa sequenza, alcune polemiche che adesso hanno probabilmente perso di senso (ma che è bene comunque ricordare) proprio sulla particolarità dei “volti” utilizzati e non solo qui (una parte della critica ritenne che le scelte fatte in relazione ai ruoli da ricoprirei, fossero troppo estremizzate proprio nel tentativo di creare una “artificiosa” antitesi anche “violenta” rispetto alla “ripudiata” iconografia tradizionale). La cosa avrebbe potuto avere un suo fondamento se fosse stata dettata da una semplice ragione critica, invece che da un “disturbo” evidente dovuto ai nomi anche altisonanti della cultura, scelti per dare corpo per esempio alla figure degli Apostoli (il che conferma ancora una volta la profonda malafede dei detrattori).
Se si rimane esterni a tali valutazioni (credo soprattutto di carattere ideologico) risulta chiarissimo infatti l’intento (e la positività del risultato)  che è poi ancora quello di voler sfuggire totalmente alla retorica di certe imposizioni figurative tradizionali e di cattivo gusto derivanti dalle mille e mille degenerazioni del barocco, ritornando alla genuina espressività di volti “anonimi” ma fortemente tipicizzati (quasi tutti i personaggi minori e i sacerdoti). Si dovrà ammettere allora che Pasolini è stato straordinario proprio in questo lavoro di “disincrostazione” delle scorie, e anche la scelta dei volti degli Apostoli ( ripresi in qualche sequenza come se fossero sospesi verso il cielo, in atteggiamenti quasi michelangioleschi) è stata significativa non in rapporto a chi ha prestato le sue sembianze, ma proprio in relazione a cosa riescono a trasmettere sullo schermo quelle facce.
E se vogliamo essere ancora più precisi, possiamo dire (anche con uno spirito un po’ polemico nei confronti dei detrattori) che nemmeno in questo caso nulla è stato affidato all’improvvisazione, e che tutto riguarda la ricercata aderenza allo “stile”,  tanto è vero che i personaggi, quando non sono quelli umili, tristi della povera gente, e appartengono invece alle classi sacerdotali o patrizie, agli Scribi, ai Farisei, ai Sadducei, sono adombrati in una specie di “deformazione” tutta fiamminga e un po’ demoniaca  realizzata però senza alcun trucco, ma soltanto ricorrendo a “precise scelte dei connotati” di coloro che ce li devono restituire sullo  schermo.
Ma il più sorprendente risultato raggiunto dal film è l’estrema concretezza delle ambientazioni e il felice adattamento delle parabole, come riesce insomma ad essere genuinamente “popolare” e credibile anche nelle narrazioni e nelle rievocazioni dei miracoli,  e come riesce ad inquadrare con  credibile efficacia il Gesù rivoluzionario che ci mostra  (che ha il volto ieratico, volitivo e dolce al tempo stesso di uno studente catalano, Enrique Irazouqui,  che sembra uscito da un quadro di El Greco ed ha la voce di uno straordinario “mediatore” come Enrico Maria Salerno) con i paesaggi le case, gli ambienti che lo circondano e dentro i quali si trova a d agire.
E’ evidente dunque in Pasolini il desiderio di documentare ogni più semplice e realistico riferimento alla vita di Gesù, ma è altrettanto evidente che proprio da questa realistica impostazione del racconto, scaturisce in una forma unitaria insuperabile e per certi versi “magistrale”, la grandezza anche spirituale del personaggio (già latente, come già accennato in apertura, nella “passione laica” di Accattone e nella crudezza violenta de La ricotta).
Su questo stesso piano mistico, Pasolini ha mantenuto la rievocazione dei miracoli risolto anch’esso con la descrizione della meraviglia “stuporosa” e della gioia delle turbe.
Anche in questi momenti, il paesaggio, l’ambientazione (la Lucania e la Calabria di G. De Lorenzo e di Ernesto  De Martino, vere proprie  terre del rimorso) hanno avuto una particolare funzionalità tutt’altro che meramente “descrittiva”.. La tristezza, il silenzio di quelle terre, l’umanità profonda dei “sassi” di Matera, delle grotte di Barile non sono soltanto un’occasione scenografica preziosa che il regista ha saputo efficacemente utilizzare infatti, ma contribuiscono a quella interpretazione del messaggio evangelico anche in chiave storica e sociologica verso cui Pasolini ha “focalizzato” l’obiettivo.
La linea di alta tensione emotiva sulla quale il film si articola e si regge, si ripropone comunque soprattutto nelle scene più ampie e corali, come quelle della Pasqua a Gerusalemme, della cacciata dei mercanti dal Tempio (la rabbia furente e i toni irati della voce di un Gesù davvero “barricadero”!) , o del discorso della montagna. Si estrinseca soprattutto in quelle estreme e tragiche  della Passione nelle quali affiora costantemente il doloroso volto di una Maria affidata proprio alle sembianze della madre dello scrittore  (col senno di poi si potrebbe persino ipotizzare che è possibile leggere in questa “premonizione” preveggente, l’enunciazione  crudele della passione e morte dello scrittore stesso).
Se vogliamo fare proprio una “classifica di merito” (cercare insomma un poco il “pelo nell’uovo”) possiamo dire che le parti meno convincenti (ma solo un poco) sono quelle che riguardano gli interventi dell’Angelo e, soprattutto, quello della danza di Salomè (interpreta da  una dodicenne Paola Tedesco al suo esordio cinematografico) nella quale il disgusto per la morbosità degli atteggiamenti di Salomè e degli spettatori che osservano libidinosi, soverchia ogni altra ragione descrittiva.
Straordinaria la colonna sonora, realizzata  con un florilegio assai vario ed eterogeneo di supporti: Bach, Mozart (il suo funerale massonico accompagnerà con una eccezionale potenza evocativa tutte le sequenze della Crocifissione e della disperazione di Maria) Webern, Prokofiev,  “spirituals songs”, cantipopoplari della Rivoluzione russa e la missa luba che si ricompongono e si integrano  con le inflessioni dialettali tutte meridionali degli interpreti che – sommate insieme - rimandano direttamente alle “sacre rappresentazioni” popolari e paesane di una volta..
 
Dedicato alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII, è un film che con il suo sincretismo formale, la scabra luminosità, i  rapporti pittorici  ispirativi, la molteplicità delle forma, e i riferimenti concreti al Terzo Mondo (che non è qui più e soltanto preistoria) , ma anche con le sue apparenti contraddizioni latenti che sono poi la sua forza maggiore,  raggiunge una forte tonalità epico-religiosa  (il Morandini), oscillando tra un viscerale e profondo “fervore” che potremmo definire “cristiano” e un sentito, autentico furore anche di denuncia contro i mali endemici del mondo e delle società (l’ipocrisia, l’inganno, i soprusi dell’uomo sull’uomo), delle sofferenze laceranti che essi determinano (le urla dei ladroni quando i chiodi penetrano nelle mani, le convulsioni di Maria ai piedi della croce), che si estrinseca alla fine in un sentimento “accusatorio” di odio e disprezzo verso i potenti ed ogni forma di sopraffazione.
Emozionante e bello come nessun altro film che sia stato tratto dai Vangeli, è – lo ripeto ancora una volta – una “rappresentazione” laica  della Passione che mette in evidenza l’umanità più che la divinità di un Gesùpugnace, medievale, carico di tristezza e di solitudine, o, per meglio dire ancora, citando ciò che ha scritto Alessandro Bencivenni, Trionfo quasi perfetto del tipico manierismo pasoliniano, impasto raffinato di grigi e di bianchi (straordinaria la fotografia di Tonino Delli Colli e fondamentale l’utilizzo delle riprese mediante l’uso della cinepresa a spalla manovrata dallo stesso Pasolini) aggregazione convulsa di gesti e di parole, di furori e di ieratiche solennità, esposizione di languori estatici (il volto di Maria giovane, il battesimo) e di tremende violenze (il discorso della montagna, la crocifissione), Il Vangelo secondo Matteo entra con pieno diritto nel gruppo sparuto degli autentici film “religiosi”.

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