Regia di Claudio Caligari vedi scheda film
Una desolante storia di spostati, di tossici, di anime perse, di zombie strafatti; di quelli che, se ne incontri, non vuoi incrociare il loro sguardo, ma non c’è pericolo, perché loro non ti vedono; di quelli che puzzano e non vuoi che ti sfiorino passando; che barcollano e spesso ruzzolano per terra e tutti girano gli occhi; e non c’è nessuno che pensi di chiedere aiuto, nessuno che non pensi che se la sono cercata.
Trama
1985. La storia aspra e rabbiosa - un romanzo criminale e popolare - è ambientata fra il funereo lido di Ostia in inverno e la degradata periferia romana (per cui, anche volendo, non si può non pensare a Pasolini).
Due amici inseparabili, Vittorio e Cesare, sbarcano il lunario da balordi quali sono, campando di espedienti poco limpidi, senza denaro e senza ambizioni; passano giornate amorfe e notti frenetiche in discoteche chiassose, fra alcool, pasticche ed eroina, zuffe da sbandati, promiscuità precarie, deliri, ossessioni di potenza.
Cesare, l’ipercinetico Cesare (Luca Marinelli), vive con la madre e con la nipotina Debora, gravemente ammalata, figlia di una sua sorella morta di AIDS.
Vittorio, il triste e tenero Vittorio (Alessandro Borghi), vive con un amica che ha un figlio adolescente.
Una sera Vittorio ha delle allucinazioni e decide di smetterla con la cocaina e con la vita balorda. Trova lavoro in un cantiere e cerca di convincere Cesare a fare lo stesso. Il forte legame che li unisce sembra funzionare: Cesare si mette con una ex di Vittorio e, con l’idea di ricominciare, si trasferisce in una casa abbandonata (una casa senza porte, metafora della sua incapacità di “uscire”). Ma le cose non funzionano: Mentre Vittorio si adatta a fatica alla umiliante condizione del proletario che fatica a pagare le bollette e si scontra con la cruda concretezza dei problemi della dignitosa sopravvivenza; Cesare invece non regge l’astinenza (e forse non regge nemmeno le scelte dell’amico), non riesce ad inserirsi nel lavoro, non si adatta alla normalità (che per lui significherebbe adattarsi alla miseria), reagisce male, affonda,
Gli va a monte il tentativo di collocare una partita di droga, tenta una rapina, viene ferito e muore (in una squallida stanza, sotto un manifesto pubblicitario di vacanze esotiche).
Il regista
Claudio Caligari, che è del 1948, ha fatto fino a 50 anni il documentarista indipendente (e cioè con pochi mezzi, suoi, senza committenti, né finanziatori, produttori e distributori; da sfigato, insomma); ha testardamente documentato negli anni ’70 le lotte studentesche (riprendendo assemblee, contestazioni, occupazioni) e - finita la stagione delle contestazioni - è passato a raccontare di realtà marginali (tossici e malavitosi di periferia), coltivando il desiderio di lavorare per Pasolini, un desiderio fuori tempo, in quanto Pasolini venne ammazzato nel ’75.
L’amore tossico del 1983, è il primo lungometraggio: un ibrido a metà fra il documentario e il film di finzione che racconta la diffusione dell’eroina nelle desolate periferie romane. Caligari ci impiega due anni a farlo, con produttori che abbandonano il progetto, la lunga ricerca di un cast credibile (con attori presi dalla realtà), riscritture infinite della sceneggiatura (nata dalla collaborazione con il sociologo Guido Blumir, ma rimaneggiata in corso d’opera col contributo dei protagonisti che, in sostanza, raccontavano le proprie esperienze). Nonostante i premi vinti a Venezia, Valencia, San Sebastiano, e nonostante le spintarelle di Ferreri, Caligari non trova porte aperte e nei successivi quindici anni scrive diverse sceneggiature e vaga inutilmente alla ricerca di produttori.
Nel 1988 esce L’odore della notte, il primo vero film di Caligari, che racconta di una banda di rapinatori della periferia romana specializzata in rapine feroci nei quartieri borghesi della capitale, una specie di “Arancia Meccanica de noantri” (e infatti la sceneggiatura è ricavata da un romanzo che racconta le imprese di una banda battezzata dalla cronaca come la Banda dell'arancia meccanica, attiva dal 1979 e sgominata nel novembre dell’85). Il film risente dei poliziotteschi degli anni ’70, italiani e francesi, ma contiene uno sguardo particolare, quello che Caligari ha maturato nelle esperienze impegnate (e nelle frustrazioni?) degli anni precedenti. La pellicola ha successo grazie a questo taglio diverso e alle convincenti interpretazioni di giovani attori quasi esordienti e poco conosciuti (Tirabassi, Giallini, Lisarelli, Bevilacqua e, soprattutto, Mastrandrea).
Nel 2001 un altro potenziale film - Anni rapaci - non vede la luce, benché alle spalle ci sia un libro di successo (Milano, calibro 9, di Colaprico e Fazzo) in cui si racconta l’affermarsi della criminalità meridionale al nord).
Passano altri 14 lunghi anni di purgatorio.
Non essere cattivo, che in un certo senso è il sequel di Amore Tossico di 22 anni prima (la scena iniziale dei due film è intenzionalmente identica, anche nella location !), viene girato nel 2015, tra febbraio e marzo. Caligari è ammalato durante le ripresa, si sottopone alle terapie e muore a fine maggio dello stesso anno, dopo aver terminato il montaggio; Mastrandea, amico del regista, porte a buon fine l’impresa come produttore delegato. Forse la consapevolezza del regista di morire lascia il segno sul film, che comprime in sé le mille frustrazioni di chi non ha visto riconosciuto i meriti e non è riuscito ad esprimersi in piena libertà; contiene il sapore amaro della consapevolezza della morte imminente, la dolorosa ostinazione di voler terminare degnamente l’ultima opera, lo sconforto di chi nelle sofferenze raccontate disegna la sofferenza del mondo e rispecchia la sua, tragica.
Considerazioni
Si dice che l’intenzione di Caligari fosse quella di comporre e completare coi suoi due film una trilogia che avesse come incipit Accattone di Pasolini in cui il protagonista si chiamava proprio Vittorio, come uno dei due amici di Non essere cattivo. Alcuni spunti sembrano rievocare una sceneggiatura che Pasolini scrisse (insieme a Giuseppe Berto, quello de Il male oscuro) per Morte di un amico di Franco Rossi. Ma i paragoni sono in parte forzature postume : troppo distanti sono i tempi, e troppo diverse le circostanze storiche, le quotidianità, le relazioni, il mondo del lavoro, il tipo di dipendenze e il giro delle sostanze stupefacenti con i loro usi e effetti (eroina in vena, poi pasticche chimiche, poi eroina sniffata). Ma l’occhio, pietoso, è lo stesso; e simile è la convinzione che i disadattati esistono perché la società, distante e nemica, li crea.
Ad avvicinare i due film c’è questo pessimismo e la convinzione che la redenzione dei coatti sia impossibile o - peggio - snaturi l’anima di questi sbandati che accettando di “mettersi a posto” perdono, insieme alla propensione a delinquere, la genuina carica eversiva che li porta a prendere le distanze dal perbenismo borghese. Questo tipo di redenzione infatti presuppone la ricerca di un lavoro (che, nel bene e nel male, è strumento di inclusione sociale) e pretende l’adesione al conformismo, l’addomesticamento, la rinuncia ai modelli culturali sottoproletari respirati dalla nascita.
Al di là di queste considerazioni intellettualistiche, il film si presenta ben fatto: la sceneggiatura è asciutta e costruita senza compiacimenti effettistici; la recitazione è intensa ed efficace nel suo esacerbato romanesco; lo sguardo è distaccato (per cui si comprende il disagio personale e il degrado sociale dei protagonisti senza cadere nelle tentazioni opposte di giudicarli o di parteggiare per loro); le location sono memorabili (con i cucinini dalle piastrelle optical degli anni ’70 e le tovaglie di tela cerata); le inquadrature non sono mai compiaciute e didascaliche, le carrellate impercettibili e quindi eleganti, il montaggio è consono con la concitazione delle ferocità narrate; le musiche sono coerenti ai tempi e consone agli stati d’animo; la fotografia è cupa come i luoghi foschi della periferia e come l’umore e l’infelice destino dei protagonisti.
Le angosce dei due amici sono opposte e parallele: con Cesare che vuole uscire dalla melma salvando Vittorio e Vittorio incapace pur nella sua disperazione di seguire l’amico. Nel tentativo di transizione Cesare si chiude in un avvilimento cupo e rancoroso, consapevole che la metamorfosi sarà faticosa e dolorosa, e forse sbagliata. Vittorio prova senza convinzione ad adeguarsi, ma non ce la fa (lo scontro in cantiere con il capo è rivelatore) e non sa contenere la sua rabbia selvaggia, che per lui è sete di giustizia, ma anche - innegabilmente - la sofferenza di sentirsi diviso, col cordone ombelicale reciso, abbandonato dall’amico; la paura di perderne la complicità, di ritrovarsi solo in fondo al pozzo.
La volontà di rivalsa del primo è tragica quanto la voracità insaziabile del secondo. In tutti e due brucia l’incapacità di fermarsi e guardarsi, tutti e due sono fagocitati dall’orrore del vuoto, dallo spaesamento, dal nulla che si trovano davanti, dal senso di sconfitta,
“Sarebbe bello essere marziani”, dice uno.
“Si, ma per andare dove?”, risponde l’altro.
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