Regia di Claudio Caligari vedi scheda film
Non è vero che Claudio Caligari abbia girato soltanto tre film. Caligari ha firmato tre opere che hanno la densità bastevole ad una cinematografia torrenziale: i rimandi, le autocitazioni, le ambientazioni ne fanno un corpus unico, profondo, lacerato e lacerante, un viaggio al termine della notte delle disperazioni suburbane che è come e più di una Bibbia dei perdenti: seguiti, vivisezionati, infine amati, come si può amare un uccello zoppo che prova e non riesce a volare, un animale in cattività che non può fare a meno della gabbia.
L’uscita postuma di Non essere cattivo ha posto la parola fine al discorso del regista romano. Senza per questo non lasciare semi sui quali chi voglia (ma soprattutto abbia la capacità di esplorare entomologicamente la vita delle borgate e delle periferie) potrà costruire una poetica successiva, eventualmente non originale e debitrice di una lezione altamente lucida e totalmente onesta. Vittorio e Cesare sono due facce della stessa medaglia, capaci di specchiarsi l’una nell’altra e di legarsi a doppio filo nel percorso di vita, eppure destinate ad infilare i due distinti vicoletti dello stesso bivio. Il filo rosso che lega i percorsi è non soltanto geografico (la Ostia di Amore tossico, locus pasoliniano per eccellenza, pregno di sudori e afrori, facce e sabbia sporca, spade e sangue, ferri e carramba in debito di ossigeno) ma anche e soprattutto interiore (l’amicizia che viene quasi prima dell’amore o che comunque ad esso deve affiancarsi, per prenderlo a modello ovvero teneramente deriderlo: Vittorio che per amore si dà al lavoro onesto viene canzonato dai nullafacenti vaccinati contro la epidemia da fatica) nonché latamente sentimentale (Vittorio piange, di fronte alla sofferenza o alla assenza dell’amico: un pianto che è liberazione ma anche rimorso, rimpianto e tenerezza; Cesare riporta sulla retta via l’amico vittima di allucinazioni post sballo da cocaina: in quel sommesso “Guido io”, in quell’insistere sul “nun c’è nessuno” sta tutta l’empatia di un’infanzia passata insieme, la bellezza del non giudizio, la consapevolezza che, finchè si navighi a vista su una stessa barca, ogni sofismo è inutile. La sofferenza va vissuta in comunione, scambiandosi i ruoli oppure condividendoli).
Non essere cattivo è, allora, un film sull’amicizia. L’amicizia ai tempi degli orrori da AIDS, del vuoto da telefonia cellulare, dello spaccio e della consumazione di sostanze psicotrope come passo propedeutico ad un riscatto sempre procrastinato, del mare che mette paura perché costringe a pensare al di là dei propri limiti fisici e psicologici. È un film sui disastri delle personalità borderline, figlie di un determinismo che pare senza rimedio (o meglio: non è l’ambiente che determina i caratteri, sono quei caratteri che si integrano all’ambiente e ne sono completati, completandolo), sulla sofferenza che si tenta di ottenebrare attraverso le piccole e grandi buffonerie da vita violenta. Pasolini è il nume tutelare di Caligari: lo è nella cosciente veglia funebre delle speranze, in quell’accatonaggio di sogni ormai infranti; lo è in quei visi scavati da una furbizia che solo a tratti riesce a nascondere l’angoscia spaurita, nella morte che chiude un cerchio e non apre altre geometrie (a parte una appena ariosa scena finale, di cui infine si dirà), negli amori, nelle case, negli ambienti di lavoro che soffocano, promettendo moneta sonante di una felicità che è sempre stata fuori corso.
Non essere cattivo è un esercizio di stile. Innanzitutto lessicale: i vezzi gergali di quella romanità ai lati ed ai limiti sono riportati con cura filologica e quasi sinestetica. E poi di immagine: i primi piani dei volti strafatti, le pupille dilatate, le lacrime, i sorrisi che somigliano a ghirigori nel nulla, le case di periferie da West urbano, l’asfissia delle pareti, dei pranzi senza gioia, del ritrovarsi in un dove da cui sarebbe più congruo fuggire. Infine, di sintassi cinematografica: rigorosa, mai lacrimevole, di brutale secchezza (la scena della morte della bambina muove ad un pianto senza lacrima, al magone che è cifra esistenziale di quegli stessi personaggi, nessuno escluso), eppure foriera di empatia, di un lento e impercettibile muoversi delle nostre vite satolle alla comprensione di quel buio, di quegli imperativi categorici ed etici affidati ad un inane pupazzo di pelouche. Ed è un film di attori, di corpi e facce ipercinetici, persi al laccio di un dover fare che li riporterà al punto di partenza. Borghi e Marinelli sono perfetti: il personaggio di quest’ultimo, poi, è un figlioccio (ancora) di Pasolini, cresciuto a Vangeli delle borgate ed al desco di un travoltismo tossico e post ’77.
Nella scena finale, cui si accennava, c’è tutta la grandezza da consapevole Giano Bifronte di Caligari, oltre che il suo testamento ambiguo e non consolatorio. Un bambino che porta quel nome volato via (Cesare), le lacrime dell’amico che si aprono al futuro ma incassano i colpi del passato. Speranza o condanna, non è dato sapere. E’ un attimo da cui trasuda amore, questo è innegabile. Ma l’amore può essere tossico, può legare, condannare, far male, uccidere. Un rovello non da poco, che la vita, per conto di Caligari, ha scelto di non sciogliere più.
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