Regia di Claudio Caligari vedi scheda film
Ci si approccia con difficoltà all’estremo lascito di Claudio Caligari, con un’implicita e finanche ingiustificata excusatio non petita da parte di un pubblico che, semplicemente, non ha ricevuto che due film nell’arco di più di trent’anni. E quindi dovrebbe apparire vagamente imbarazzante a produttori e distributori, che non hanno concesso a questo regista di lavorare, la scelta di presentare Non essere cattivo come candidato italiano nella corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Detto ciò, il fattore preliminare da ribadire in queste occasioni (ogni opera uscita postuma è viziata di un inevitabile istinto celebrativo a prescindere della buona o cattiva riuscita dell’opera), quasi decade di fronte ad un film così. Non fosse per altro, il merito di Caligari sta nell’aver saputo imporre una cifra personale, autonoma e coerente nelle dinamiche del cinema di genere, contaminando l’antropologia lirica pasoliniana con i codici scorsesiani, l’indolente e cinica ironia della romanità d’altri tempi con il dolore di un malessere sociale che guarda al passato soltanto per una mera questione narrativa (gli anni novanta, stagione poco frequentata dal cinema italiano che ripensa ai suoi ieri).
Il tranche de vie del sottoproletariato romano, colto tra buffi e spacci, sospeso tra la disperazione di una speranza mai considerata e la devastazione come alternativa all’esercizio dell’angoscia, non strizza mai l’occhio allo spettatore romanzocriminalizzato né all’elitaria sociologia per le masse, proponendo uno sguardo affettuoso eppure mai assolutorio, privo di sensazionalismi (il sangue sgorga, poco e straziante, soltanto nel primo finale) o scorciatoie (mai una ridondanza nemmeno nei momenti più empatici, ritmo secco che assiste un racconto tutto sommato semplice). I suoi personaggi non vorrebbero guardare il mare, perché il mare fa venire i pensieri, e tuttavia si ritrovano sempre sulla spiaggia: e qualcuno si costruisce anche il desiderio di smetterla coi quattrocento colpi sul litorale ostiense. Due o tre simbolismi qua e là annunciano le disgrazie (le croci) o mettono in guardia per il futuro (i trip per strada e nel casotto), ma forse è il finale a rischiare di mostrarsi un po’ buonista, con l’intenzione di chiudere positivamente un cerchio che ha avuto bisogno del male per progredire. Poco male: nella sua artigiana essenzialità, il film è potente, commovente, appassionante, meno problematico di Amore tossico e più compatto de L’odore della notte, dominato dalla spettacolare interpretazione di un Luca Marinelli che pare uscito dall’Actor’s Studio.
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