Regia di Mark Sawers vedi scheda film
Negli anni Cinquanta del XX secolo sempre più donne presero a dichiarare gravidanze prive di concepimento. Se inizialmente il fenomeno veniva liquidato come psichiatrico, o semplicemente si additavano le future madri come bugiarde in preda alla disperazione per essere state sedotte e abbandonate, nel giro di qualche anno la situazione cambiò drasticamente. Le madri single divennero esponenzialmente di più, infatti, e puntualmente davano alla luce figlie femmine. All'alba del terzo millennio gli uomini sulla Terra sono dunque rimasti molto pochi e in questo documentario vediamo da vicino come vive il più giovane tra loro, domestico tuttofare in una delle tante famiglie matriarcali americane.
Mark Sawers, molto attivo come regista di serie, fino al 2015 si era dedicato solamente in una occasione al cinema: per il lungometraggio a soggetto Best wishes Mason Chadwick (1995). A vent'anni di distanza il Nostro ritorna con un mockumentary di tutto rispetto, un falso documentario che testimonia la vita in una distopica realtà contemporanea nella quale le donne sono solite riprodursi per partenogenesi e gli uomini, isolati e ridotti a una specie minore sul pianeta, scarseggiano. Uno sberleffo al patriarcato, in buona sostanza, nonché un tentativo di raccontare la più classica delle parabole apocalittiche discendenti con toni sempre leggeri e un'ironia di fondo percepibile in ogni istante, ma mai troppo marcata. No men beyond this point non è un film comico, insomma, e non è neppure prettamente un film politico; è un racconto allucinato e allucinante di una distorsione sociale di vastissima portata che – nella sua comunque presente verosimiglianza – finisce per fungere anche da ammonimento, da insegnamento. Tutto molto lieve, come si è detto, ma non privo di risvolti sociologici di chiaro valore; soprattutto lo è la coda del film, quella in cui finalmente un po' di azione si sviluppa. E questo è il limite principale dell'opera: la pur breve sceneggiatura dello stesso Sawers (la pellicola dura ottanta minuti circa) gira attorno alla storia di Andrew (Patrick Gilmore) per la quasi totalità della narrazione, finendo poi per animarsi solamente nel segmento conclusivo, senza dubbio quello più interessante. Non è facile arrivarci, a ogni buon conto, senza una buona dose di sbadigli: peccato per la ripetitività e la scarsa incisività della prima ora del lavoro. 4,5/10.
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