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Son of Mine

Regia di Remy van Heugten vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Son of Mine

di lostraniero
8 stelle

L’amore è come la caccia. La caccia è come la guerra. L’amore è come la guerra.

Il cinema olandese è una piccola miniera di carbone. E gemme preziose. Devi prenderti la tua làmpara, il tuo casco protettivo (sai come ti protegge dal grisù, quello!), mettere gli scarponi per come si conviene, e scendere. Infine. Non prima di aver indossato anche la pazienza del buon cinefilo – l’amico JeanJacquesR. ci costruirebbe subito un altro mito, scagliandosi contro il potere corruttivo di piattaforme omologate, di serial, di tv soporifere, di immagine triturata e condita ed ora ridotta a salsiccia per il videobarbecue di casa nostra –, ma anche mai senza infilare per tempo, ed in pieno petto, un cuore gonfio di commozione vera. Di chi di storie ne ha già viste tante, ma di racconti tali non ne avrà mai abbastanza.

Il regista olandese Remy Van Heugten compie il miracolo con poco. Pochissimo. Tantissimo. Con una storia semplice – sembra quasi un’epica senza tempo –, dura e toccante; tesse nello scardinamento socioeconomico di un’intera regione (il Limburg netherlandese, zona di minatori mandati alla rovina), il terribile rapporto padre/figlio, lo fa pedinare da una sorta di legge inviolabile del sangue - un livido cont(r)atto sciamanico che passa sul capo da generazione a generazione -, e ci soffia su. Dandogli movimento, quindi la vita.

Una tela variopinta, con prevalenza dei colori caldi e tristi dei boschi, delle radure, dei tramonti attorno alla cittadina di Heerlen che è – e questo è davvero un dato originale e sorprendente – il luogo di nascita dello stesso regista. Un piccolo (grande) lavoro cinematografico, in cui magicamente si intrecciano i fili della fantasia di scrittura con la reminiscenza autobiografica e con i fantasmi antropologici di un’intera comunità. Che aveva – presumibilmente – più dignità ieri, quando se ne scendeva nelle carni della Terra Madre, a graffiare il nero ed a sputare il rosso, che oggi, deragliata in una criminalità diffusa e perenne, martire alla luce del sole e destinata al buio d’ogni  cagione di pena.

Tutto ciò ci viene costruito davanti agli occhi con il nervoso montaggio che predilige, con risultati sempre accettabili e mai ridondanti, campi lunghi e lunghissimi, una camera a mano che tallona (quasi fosse l’angelo del male, posato sulla spalla o ad un palmo dal dorso di chi ama e immola ciò che possiede nella vita) o dei campi/controcampi stretti e schembi che sopravvivono da sé anche quando uno si immaginerebbe queste inquadrature divelte dalla cornice di legno duro e filo di ferro che le regge, e montate dentro a mèlocrimini più sognanti, dritti verso il gusto oramai gioviale del pubblico medio europeo. Qui, invece e per grazia nostra, tutto duole, lacrima, stringe quasi a soffocare e riapre – con mano laica – ogni ferita apparentemente cicatrizzata.

Tre generazioni ‘maledette’ (nonno, padre e figlio) generano così il futuro, nascosto e maschio dentro al ventre di una giovane donna, decisa a lasciare per sempre quel luogo segnato dalla desertificazione e dall’umiliazione quotidiana.

Amore. Caccia. Guerra.

Jeffrey è il figlio di Lei. Lei è il figlio di Leonard Martin. Jeffrey è il figlio di Leonard Martin. Ecco, il cerchio si chiude ed il quarto che verrà all’esistere sarà finalmente (lo speriamo) un uomo libero…

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