Regia di Riccardo Freda vedi scheda film
Scivolone per un regista che ha contribuito (con I vampiri, 1957) a lanciare l'horror gotico in Italia. Qui Freda tenta di emulare Bava e Argento, fallendo clamorosamente...
Dublino. Nell'auto dell'ambasciatore olandese Sobiesky (Anton Driffing) viene rinvenuto il cadavere di una donna, orribilmente sfigurata con il vetriolo e poi ferita alla gola con arma da taglio. Quando si ripete un analogo delitto, l'ispettore Lawrence incarica delle indagini un ex collega, John Norton (Luigi Pistilli), allontanato dal servizio perché durante un brutale interrogatorio l'indagato si era tolto la vita con un colpo di pistola. Norton, per avvicinarsi al mondo del diplomatico, e convinto che lì sia nascosta la mano omicida, intreccia una relazione amorosa con la figlia Helen (Dagmar Lassander).
Dal romanzo A Room without door di Richard Mann, Sandro Continenza e Riccardo Freda traggono ispirazione per realizzare una sceneggiatura che si colloca sulla scia del giallo italiano (ma in coproduzione con Francia e Germania) avviato dal successo della trilogia zoonomica di Dario Argento. Purtroppo però, sin da un titolo forzatamente appiccicato (risibile la citazione fatta nel film che accosta senza alcun significato l'iguana del titolo al killer) si capisce che Freda non sente nelle sue corde il progetto e, infatti, ne sigla i credits con lo pseudonimo di Willy Pareto.
Ne esce un film che avrebbe avuto forti potenzialità se posto in altre mani (Lenzi, Martino o Crispino ad esempio) mentre per Freda quel che importa qui sembra essere solamente il cachet. E quanto di buono ha a disposizione (dallo score musicale di Cipriani ad un cast eccellente, con in testa un ispiratissimo Pistilli e la sensuale Lassander) si perde dietro una regia svogliata e bruttissima, che non valorizza minimamente i momenti di tensione e, anzi, deprime il thriller in favore di tre o quattro scene splatter anch'esse realizzate malissimo: caratteristica, quella dei brutti effetti speciali, tipica del regista che anche in A doppia faccia e in Murder obsession ricompare dannosamente ad azzerare il climax delle pellicole.
Non è qui in discussione il talento di un regista che ha contribuito con apporti (non sempre) personali al genere horror (da I vampiri a Caltiki grazie al supporto di Mario Bava) e che, anzi, ne è stato un promotore. E film come Il segreto del dottor Hichcock determinano, in ogni modo, un contributo fondamentale alla cinematografia nostrana.
Fatto resta che L'iguana dalla lingua di fuoco lascia un retrogusto amaro, perché poteva essere ben altra cosa. Finita la visione, restano in mente quelle quattro o cinque scene sanguinarie girate (frettolosamente) in maniera infantile, facendo ricorso ad evidenti manichini o pupazzi di scena...
Da un maestro (e Freda lo è stato) ci si attendeva ben altro che un semplice giochino fine a se stesso.
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