Regia di Jim Sheridan vedi scheda film
Scritti, e disegnati, impressi, a margine e sopra, dentro, le sacre pagine di una bibbia, i segreti della vita assai difficile della pazza, (probabile) infanticida Rose, da quarant'anni reclusa in un manicomio in procinto di venire smantellato per far posto a un hotel con spa. La venuta, su misterioso invito clericale, del dr. Greene assume i contorni di un'investigazione tanto nel mistero quanto nella coscienza e nella storia. Di Rose e sue.
Sulla carta, l'inchiostro bruno dai toni espressivi di un mélo-dramma fosco e dolente; controluce, bagliori di coinvolgimento; in filigrana, contenuti e senso scaturenti da uno scenario storico-sociale-morale di innegabili asperità e recrudescenze di antiche deplorazioni collettive.
Conflitti che raggiungono un luogo sospeso in una dimensione (dall'apparenza) ideale, quasi bucolica, ma lambito e in seguito sporcato dalle chiazze ferali della seconda guerra mondiale; già da prima, però, abitato dall'eterna contrapposizione tra le anime irlandesi e inglesi (l'ammonizione, immediata, per la donna, è di stare «dalla parte giusta»), dalla misera bigotteria di una comunità chiusa, dalla presenza, lasciva e corrotta, della Chiesa.
L'amore contrastato, infine.
Elementi e sentimenti di un romanzo dalla carica emotiva forte, penetrante (decenni di trattamenti tra i quali l'elettroshock minano le verità; la “colpa” della bellezza non corrisposta equivale a pubblica, violenta gogna; il presente, invece, fa rima con un'indifferenza diffusa e generalizzata). Peccato solo che l'impaginazione formale trabocchi di convenzion(alism)i che hanno la natura pigra di chi si limita al compitino (il sovrapporsi dei piani temporali, le inquadrature, i campi e controcampi, il montaggio: l'impersonale domina, l'impeccabile grigiore impiegatizio imprigiona cuore e nervi), mentre la pasta narrativa si rivela granulosa, satura, lacunosa, derivativa, pasticciata (peraltro, il “colpo di scena”, già di suo eccessivo, è intuibile anzitempo); e i filamenti tematici sono il risultato di un mero accumulo che, inevitabilmente, si contorcono fino a formare un groviglio di perplessità e giustificato distacco.
Mitigato, certo, dall'enfasi dei toni e del momento, della struggente sonata per piano onnipresente che la Rose dell'oggi dedica al ricordo del «vero amore», Michael, del susseguirsi di accadimenti tragici che si accaniscono contro la povera donna, dell'interpretazione (eccellente) e la sensibilità delle due “anime”, Vanessa Redgrave e Rooney Mara.
Sprecate, entrambe, in un'opera in cerca di identità (stante l'origine letteraria evidentemente confusionaria ed esagerata), dalla mano registica flebile (Jim Sheridan esegue su commissione, svogliato e poco ispirato), che trascura i personaggi secondari, compreso il tanto evocato Michael, e surroga la (ricerca della) lacrima facile alla lettura stratificata.
Nessun segreto, in realtà: il film è limpidissima esposizione.
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