Regia di Daniel Alfredson vedi scheda film
"Certe persone sono semplicemente il male senza motivo."
E' così che pensa di cavarsela Daniel Alfredson in questa ennesima storia seriosa di riscatto e violenza. Con il suo stile (?!) notoriamente gelido e impersonale - con cui aveva appiattito in maniera definitiva gli ultimi due capitoli della saga nordica di Millennium - il regista svedese ormai del tutto americanizzato costruisce un film che è tutto un pretesto per far recitare (bene, per carità) Anthony Hopkins, unico fra gli attori coinvolti che sembra non scandire le parole di un copione scritto mentre parla - salviamo forse anche Ray Liotta, lì il problema è il personaggio. Quando infatti Lilian chiede aiuto per trovare un uomo che la ossessiona, lei Lester (Hopkins) e un giovane balbuziente si mettono in viaggio per trovarlo, sempre più consci che la crudeltà di Blackway (Liotta) sembra vincere su tutto e su tutti, ed è più pericolosa perché insensata e istintuale. Dunque indiscutibilmente Bene da una parte e Male dall'altra, entrambi aprioristici, entrambi potentissimi. Quanto però più è insensato il male di Blackway, tanto più è assurdo il viaggio che i personaggi intraprendono, considerando che Blackway è una sorta di delinquente vagabondo che passa da un posto all'altro e che sarebbe di certo tornato nel loro paese a seminare la solita zizzania contro i quattro rincitrulliti impauriti del bar e lo sceriffo demente. Il Bene dei personaggi principali vorrebbe essere smussato dal fatto che decidono di uccidere Blackway senza avvertire polizia o simili - "se lo uccidiamo lui non infastidirà altre donne", dice Lilian - ma viste le premesse quasi diaboliche con cui viene rappresentato Blackway (che entra nelle case di nascosto nottetempo manco un nemico degli eroi della Marvel) come possiamo davvero avvertire il minimo dubbio morale?
Il film si trascina per un'ora e mezza tra dialoghi banali, situazioni ridondanti e contesti poco interessanti - inerti riempitivi - fino al finale sbrigativo che mette le cose a posto. Non sarà certo il volto contrito di Anthony Hopkins a dare l'idea di un film che abbia il coraggio di non concludersi e lasciare spazio all'indefinizione: invece Go With Me ha una conclusione in tutti i sensi, una gigantesca parola Fine, ed è una fortuna per lo spettatore che si sarà divertito solo se non avrà visto altri film durante il resto della sua vita e potrà trovare in questo qualcosa di nuovo. Un film talmente inutile che lascia i dubbi su come lo si sia potuto concepire, anzi realizzare senza che venisse davvero "concepito".
Fuori concorso a Venezia 72.
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