Regia di Jia Zhang-ke vedi scheda film
Il film è uno spietato, razionale discorso sulla mercificazione dell’esistenza sviluppato su un’asse temporale equamente divisa fra passato, presente e futuro dentro a un contesto sociale soffocato dalla ricerca ossessiva del successo e del denaro, in cui tutto (anche l’emancipazione verso il modernismo) procede più in fretta che altrove.
Un corollario di passioni troncate che sta lì a dirci che l’impossibilità di coltivare i legami familiari è sinonimo dell’impossibilità di tramandare una memoria. (Lorenzo Rossi)
Shan he gu ren (Mountaines May Depart e da noi Al di là delle montagne), è l’ultima fatica del talentuoso Jia Zhang-ke, regista di rara sensibilità e di altrettanto smisurato talento visivo che non ha mai sbagliato un colpo e che non smette mai di stupirci per la capacità che ha di centrare con precisione millimetrica il bersaglio col quale intende confrontarsi.
E’ sorprendete rilevare infatti come riesca a cambiare pelle e a rinnovarsi rimanendo comunque sostanzialmente fedele a se stesso, ogni volta che si cimenta in un nuovo impegno che lo induce a spostare sempre più in alto l’asticella della sua accorata ma feroce indagine su quelle che potremmo definire le anomalie (e i conflitti) con cui deve fare i conti la Cina odierna da lui stigmatizzate attraverso le storie che racconta (i percorsi tragici o drammatici dei suoi personaggi in sofferenza e i loro tortuosi itinerari sospesi fra transitorietà e decadimento morale).
E’ dunque confermato anche qui (e reso esplicito), uno dei concetti basilari che esprime col suo cinema, e cioè che per lui, nella visione (critica) che ha del presente, la Cina è una specie di antonomasia iperreale del mondo (Lorenzo Rossi) e che è proprio su questo aspetto che intende soffermarsi portando di nuovo in evidenza gli squilibri determinati nel suo Paese dal vertiginoso sviluppo economico e dalla globalizzazione.
La tematica narrativa su cui è costruito il film, è semplice e non certo nuova: riescono davvero a resistere all’usura del tempo i sentimenti umani? E se sì, come e in quale misura si sono comunque deteriorati? Indubbiamente un concetto molto dibattuto sul quale forse – se ci si limita all’aspetto del privato – è già stato detto tutto o quasi. Quelle che però rendono singolare il film di Jia Zhang-ke (Al di là delle montagne) sono le modalità con cui il regista cinese affronta questo canovaccio, come lo piega alla visione che ha delle cose, come lo declina di fronte alle reazioni anche emotive dei suoi personaggi, e soprattutto come lo rapporta e lo confronta (in una specie di causa – effetto) con l’evoluzione degli avvenimenti della Storia. In una parola, come riesce a far lievitare un tema così banale e risaputo in un qualcosa di molto più problematico e coinvolgente, che nelle sue mani diventa “grande cinema”.
Il film porta infatti ancora più avanti il suo spietato, razionale discorso sulla mercificazione dell’esistenza all’interno del quale è preponderante l’attenzione che riserva al disorientamento e all’alienazione giovanile entrambe amplificate dal contrasto insanabile fra “antico” e ”progresso”. Di tutta questa “distorsione” sensoriale che inevitabilmente crea fratture molto profonde, ce ne dà una rappresentazione esemplare che si sviluppa attraverso un’asse temporale equamente divisa fra passato, presente e futuro con la quale prova a raccontarci – partendo dalle periferie che sono da sempre il suo privilegiato terreno osservativo ma approdando poi addirittura in Australia - un contesto sociale e culturale molto articolato e di dubbia morale in cui tutto (anche l’emancipazione verso il modernismo) procede più in fretta che altrove e dove in maniera ancor più evidente, i valori umani sono definitivamente sviliti e soffocati dalla ricerca del successo, del denaro e della prevaricazione a tutti i costi che passa anche attraverso la corruzione e l’ingiustizia sociale.
E’dunque proprio seguendo questo fil rouge in divenire che ci troviamo costretti (nel nostro ruolo di spettatori “pensanti”) a registrare e fare i conti – inquadratura dopo inquadratura - con questo progressivo slittamento verso un angosciante disfacimento delle relazioni e con il conseguente smarrimento che si prova di fronte al dissolvimento parallelo dei volti e dei corpi (di alcuni, uno in particolare, si perderanno addirittura le tracce già nel secondo segmento, ma possiamo benissimo immaginare quale sorte non il destino, ma la contingenza, gli ha riservato), oltre che dei ricordi e dei luoghi all’interno dei quali l’azione è stata collocata.
Secondo il suo stile ormai collaudato (e qui rinvigorito da un nuovo interessante iter narrativo che accompagna la messa in scena delle cose) il regista sceglie di procedere però per sottintesi evitando così di scendere nel territorio minato del pamphlet programmatico, poiché se c’è una cosa che non rientra nei suoi canoni di rappresentazione, è proprio quella della sterile denuncia urlata ai quattro venti anche quando si tratta di fare i conti – come accade in questo film – con i disastri connessi con l’inarrestabile occidentalizzazione della sua Nazione poiché nella pellicola più che il rimpianto per un paese pre-capitalistico e la perdita (irreversibile a questo punto) delle proprie tradizioni locali, prevale la desolazione culturale e lo sfacelo ambientale e morale che il cosiddetto “progresso” ha prodotto e produce ancora.
Tutto ciò, oltre che attraverso le psicologie dei personaggi, lo si evince osservando il modo in cui riprende (e contamina a suo modo) i paesaggi rurali: ogni volta che la cinepresa si sofferma in campo lungo su uno scorcio naturale, vi è infatti sempre qualche elemento umano che lo disturba, lo “inquina”, si potrebbe dire (una diga, una fabbrica, una ciminiera, un insediamento urbano in lontananza) come se la natura fosse stata violentata dall’uomo in nome del progresso, della produzione, dell’economia e depauperata per questo di ogni residua traccia di spiritualità.
Dentro a questa storia – va detto subito - il regista si muove con assoluta perizia tecnica. Cambia il registro, ma non il metodo, pur percorrendo questa volta la perigliosa strada del melodramma (dei sentimenti) del quale rispetta comunque le regole codificate portate però a compimento esecutivo in forma assolutamente razionale. Accetta dunque consapevolmente il rischio e lo vince alla grande evitando mielose sdolcinature e coercizioni di stampo sentimentale. Resta così coerente e fermo nel realizzare il suo ardito progetto in modo assolutamente controllato, nel senso che la sua analisi si conferma lucida, dura e profonda anche nei momenti più patetici (e ce ne sono molti) oltre che drammatici. Sa insomma trattare così bene la scivolosa materia, da riuscire a schivare (senza nemmeno sfiorarlo da lontano, per la verità) il ricatto della commozione a tutti i costi.
Pur concentrandosi su una convenzionale dinamica (ma dai risvolti inediti ed anche - se vogliamo – altamente “simbologici”) che è poi quella – almeno nelle premesse iniziali - del triangolo amoroso, la utilizza poi nei suoi sviluppi oltre il tempo e lo spazio, per impostare una specie di “romanzo di formazione” che racconta la crisi irreversibile di un nucleo familiare (e di conseguenza della società di riferimento) descritta con toni inconsueti e malinconici ma vivificata da improvvisi scarti narrativi e radicali cambi di punti di vista che modificano progressivamente anche il formato dello schermo fino a portarlo nel finale al panoramico esteso (che sono poi uno dei punti di forza dell’intera rappresentazione che ben sorreggono - e la esemplificano magistralmente - l’idea centrale del racconto che è quella di seguire la trasformazione evolutiva dei personaggi principali passando a un certo punto il testimone alla generazione successiva, per far sì che attraverso tale osmosi si possano meglio interpretare in chiave sociologica tutti gli indizi disseminati nel percorso che definiscono le cause della deriva di una Cina che ha perso i suoi valori). Proprio a proposito della particolarità formale a cui ho accennato prima (non nuova nel cinema della contemporaneità poiché – in maniera più parziale e con finalità molto differenti - è stata utilizzata pure da Xavier Dolan nel suo Mommy) qualcuno (non ricordo esattamente chi ma mi sembra che sia stato Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera) ha inteso sottolineare con forza quanto sia qui fondamentale l’impiego delle differenti dimensioni dell’immagine («classico» - ovvero 4:3 nel 1999, «panoramico» nel 2014, «scope» nel 2025) proprio perché poi è stato utilizzato con una curiosa inversione di senso che ne definisce l’importanza. Infatti, più si allarga l’inquadratura, più si riduce lo spazio dedicato al paesaggio, così da portare sempre più in primo piano i volti dei vari personaggi e le loro ambasce, e quindi concentrando sempre di più l’attenzione sui protagonisti del racconto. Si avverte così un forte senso di alienazione culturale ed emotiva che rende sempre più palpitante una vicenda che coinvolge profondamente lo spettatore.
Come un funambolo che si muove sospeso su un filo teso tra fiction e documentario insomma, Jia Zhang-ke registra attraverso il privato, l’insieme delle profonde contraddizioni (anche etiche) che lacerano una società (per molti versi definibile “in crisi” nonostante il Pil e i successi commerciali). Perché anche questa volta è il capitalismo (stigmatizzato però per quello che è e che purtroppo produce ma mai demonizzato per partito preso al fine di elogiare una tradizione orientale rural/contadina altrettanto precaria e poco funzionale) l’oggetto che muove le passioni del regista, quelle attorno alle quali prende forma e si sviluppa il suo cinema in evoluzione che si declina in una specie di “divenire in movimento” (anche poeticamente espresso, se vogliamo) che partendo dal 1999 e approdando al 2025, contribuisce a renderlo un insostituibile, prezioso testimone di un imbarbarimento collettivo che rinnega prima di tutto il sentimento (legami di sangue compresi).
Ma se nei suoi film precedenti, A Touch of Sin in particolare (un apologo brutale, duro e pessimista col il quale aveva già mutato coraggiosamente andamento e forma rispetto a tutto ciò che aveva prodotto prima) la sua attenzione era focalizzata soprattutto sulla dimensione spaziale del fenomeno “economico” che “assassina” la Cina riuscendo a far convivere fra loro vicende lontane e diversissime nell’andamento a incastro dei cinque episodi – tutti tragici – in esso rappresentati, qui (dove resta lo stesso realismo stilizzato depurato però dalla violenza che contraddistingueva la su precedente pellicola) è davvero soprattutto sul tempo che si concentra il suo sguardo (ed è dunque proprio il tempo nel suo trascorrere lento ma inesorabile, che viene analizzato). Secondo Jia Zhang-ke e la sua personale (ma condivisibile) visione delle cose infatti, il divenire capitalistico della Cina “comporterebbe una vera e propria rimozione della temporalità della storia” (Pietro Bianchi) ed è forse proprio quella la tesi prioritaria che ha inteso esplicitare con questa straordinaria pellicola che entra con prepotenza e a pieno titolo nell’olimpo dei grandi film di un abbastanza scoppiettante finale di stagione dove si sono sparate ottime cartucce ma anche tante (troppe) bordate a salve, che ci offre una rappresentazione futuribile ma molto veritiera di un possibile approdo (tragico per più di una ragione) del “sogno” fallace del capitalismo rampante del presente e della sua consacrazione a dogma a causa del quale – di fatto - il passato è stato frantumato e non esiste più e le relazioni sociali sono state relegate a un eterno presente che coinvolge e penalizza (annulla?) persino le parti più intime e preziose delle relazioni familiari ormai definitivamente agonizzanti: significativamente, il dialogo risolutivo fra padre e figlio nel terzo segmento, è reso possibile solo attraverso la mediazione di una interprete, l’unica con la quale il ragazzo riesce a comunicare (anche sentimentalmente parlando e il cui fascino “maturo” risveglia in lui il rimpianto per una madre di cui ha dimenticato anche il nome) che traduce dal cinese all’inglese e viceversa e rende così possibile il parlarsi – che si risolve però in un acceso scontro che aumenta la barriera dell’incomunicabilità - fra due persone così strettamente legate da vincoli affettivi, ma che non condividono più nemmeno l’idioma tanto sono diventati estranei l’uno all’altro e viceversa.
Il film si apre su un gruppo di giovani cinesi degli anni Novanta che ballano una “Go West!.” sparata a tutto volume nella versione dei Pet Shop Boys (e come si è già detto, qui il formato dell’immagine utilizzato in chiave narrativa è quello del 4:3). Si sta festeggiando (con un balletto pop e i fuochi d’artificio) la fine del secolo breve (il Novecento) e l’entrata nel nuovo millennio quando (come scrive acutamente Lorenzo Rossi) la Cina non è ancora partita per l’ovest, ma ha già pronte le valigie.
Fa sicuramente effetto in questa memorabile sequenza, il logo dell’Ufficio per la censura dello stato cinese (il “Film Bureau State Administration of Radio, Film & Television) che appare sullo schermo immediatamente prima e in qualche modo ci si connette “simbolicamente” rendendo così ancor più singolare la suggestiva intuizione di far cominciare la pellicola proprio con i Pet Shop Boys e una delle canzoni simbolo della fine del socialismo reale coincisa con la caduta del muro di Berlino). Diventa così ancor più chiaro e lampante il versante “politico” del racconto, che è poi la consapevolezza di aver compreso che il capitalismo realizzato così brutalmente in Cina (ma anche altrove) non lascia davvero scampo poiché ha modificato definitivamente il modo di rapportarsi agli altri, tanto da rendere impossibile (vedi la struggente sequenza conclusiva), a poco più di 25 anni di distanza, immaginarsi un futuro come riuscivano ancora a fare i ragazzi alla fine dei ’90 quando il miracolo cinese era di fatto solo in embrione. Si può ancora provare a muovere qualche passo con il magone del ripianto per una ormai lontana “verginità” perduta, ritmato di nuovo sulle note di quella mitica canzone, ma più che un ballo, diventa subito una sconnessa, sconsolata pantomima solitaria sul bordo dell’abisso.
Senza aver bisogno di ricorrere a sovrastrutture o cliché, ancora una volta dunque Jia Zhang-ke riesce a parlare di temi di grande portata sociale e culturale lasciando un segno nitido che è impossibile non cogliere nella sua disarmante lucidità. Invita inoltre chi guarda dalla sala, ad affrontare insieme a lui questo viaggio emozionale carico di suggestioni dentro le contraddizioni della sua Cina bellissima, e martoriata, schiacciata tra capitalismo e tradizione, passando attraverso queste piccole storie di ordinaria quotidianità.
Shan he gu ren è composto da tre distinti segmenti che corrispondono a tre snodi fondamentali della modernizzazione cinese.
Come si è già accennato sopra, il primo (un brano davvero eccezionale per perfezione formale ed equilibrio estetico-narrativo) inizia nel 1999 a Fenyang, piccola città della provincia dello Shanxi (effettivo luogo di nascita del regista). E’ un’epoca di tumultuosa crescita economica e a dominare è ancora l’ottimismo. I protagonisti sono giovani e hanno la vita davanti a loro. Sono dunque pieni di speranza e credono che sia possibile che i propri sogni diventino realtà: la ventenne Tao è corteggiata da due amici d’infanzia, Zhang proprietario di una stazione di servizio (che è anche il più facoltoso dei tre) e Liangzi che invece è un semplice operaio di una miniera di carbone in crisi. Ma dopo la frenetica, giocosa parentesi introduttiva, tutto appare più rallentato, ed è la circolazione degli oggetti di consumo ad assumere sempre più la valenza di un irrinunciabile status symbol al quale si deve ambire a tutti i costi, anche per forza, e a rendere così l’idea di un immaginario collettivo che oltre a questo,non ha alcuna certezza su quale direzione è giusto prendere per arrivare alla “felicità”. La scelta è dunque quasi obbligata e infatti la ragazza finisce per sposare Zhang, che diventerà un ricco capitalista, decisione che spezza il cuore al minatore praticamente rifiutato, che per la disperazione lascia casa e città.
La seconda parte è ambientata invece in un 2014 in cui l’euforia di un tempo si è definitivamente spenta (rappresenta il momento del disincanto, delle promesse non mantenute e delle riflessioni sugli errori delle proprie scelte). Liangzi sposato e con un figlio piccolo, è un malato di cancro in fase terminale che non ha nemmeno i soldi per le cure che potrebbero prolungargli la vita. Anche Tao e Zhang (che nel frattempo si sono divorziati), hanno un figlio di sette anni, Dollar (in nome omen) affidato dopo la separazione all’ex marito che si è trasferito a Shanghai dove vive con il ragazzo che intende far studiare in Australia (la terra del futuro), e una nuova più giovane compagna. Quando la madre rivedrà Dollar qualche anno dopo in occasione del funerale del nonno, la distanza tra i due è già incolmabile, paragonabile (ne è in effetti un bellissima metafora) a quella che separa la Cina che si è convertita al capitalismo all’altra rimasta ancora legata alle vecchie tradizioni.
La terza parte (per me la più interessante e problematica che il regista utilizza non solo per scavare nella fragilità e nella volatilità dei sentimenti umani ma anche per raccontare la mutazione antropologica del proprio Paese e dei propri concittadini) è invece ambientata nel futuro (nel 2025 appunto) ed è qui che l’azione si sposta in Australia dove sono emigrati ormai da molti anni a far fortuna Zhang e Dollar, che vivono però praticamente separati: il primo chiuso nel circolo vizioso dei vecchi amici cinesi che come lui sono approdati nel nuovissimo continente a far fortuna; il secondo educato nelle migliori scuole che parla solo inglese ed ha un futuro già tracciato, ma che rifiuta l’imperativo del padre di arricchirsi ad ogni costo e intende invece ritornare in Cina alle sue radici, per rivedere una madre – Tao, che vive in solitudine – della quale ha praticamente perso la memoria. Il paesaggio ampio e sfumato dell’Australia assume così il senso di una prigione a cielo aperto in cui le mura e le sbarre sono sostituite dalla incomunicabilità e dalla rimozione dei ricordi.
Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo qui (e ho già detto molto) aggiungendo soltanto che è proprio in quella atmosfera rarefatta fra Australia (la terra promessa di Zhang e la terra straniera di Dollar) e Cina (con la Tao solitaria che prepara i ravioli e crede di sentire la voce del figlio tanto amato che la chiama da lontano) che si comprende meglio la peculiarità di questa interessante trasferta nel futuro dentro a un mondo diventato liscio e deprivato che trasferisce anche lo spettatore in una dimensione indifferenziata dove non c’è più discontinuità fra presente, passato e futuro e il senso del tempo è completamente perso (ancora Pietro Bianchi).
.Passando – per concludere – a una sintesi finale, posso dire che ci troviamo di fronte a un film che “implode” di passione fatto di immagini (dialettiche ed evocative al tempo stesso) che aprono vertiginosi orizzonti dai quali credo sia impossibile non lasciarsi travolgere e che pur affidandosi alla metafora, gioca poi le sue carte migliori sul versante del melodramma (appunto). Nei tre episodi, dentro i quali ha disegnato la sua storia e in cui ogni tipo di rapporto finisce per essere frustrato, sono infatti sempre i sentimenti forti e i legami più essenziali che sorreggono l’azione mettendo in evidenza le defaillances pratiche dovuta a questo capitalismo espanso che inquina profondamente l’esistenza.
Ottimi come sempre tutti gli interpreti con una particolarissima menzione per il versante femminile. Bellissima anche la fotografia opera del fedeleYu Lik-wai.
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