Ero rimasto a "Still Life", di 10 anni fa. Non mi aveva affatto convinto quello stile para-documentaristico così amorfo e piatto, "still" appunto. Quest'ultima fatica di Jia Zhangke invece contiene momenti di grande forza poetica ed emotiva. Possiede il respiro di una grande epopea nazionale, anche se di taglio minimalista ed intimista. Come il "Cacciatore" o "C'eravamo tanto amati", capolavori assoluti del cinema occidentale che hanno raccontato la loro rispettiva storia nazionale recente, "Al di là delle montagne" ambisce a rappresentare gli effetti del cambiamento politico-sociale sulle amicizie e gli affetti delle persone comuni. Come nel film di Cimino, c'è un trauma, anche se più "soft": là era la guerra, qua il boom economico. Come nel film di Scola, c'è un discorso di classe: proletari e arricchiti in conflitto, poichè, come è noto, ogni boom economico determina e distingue beneficiari e vittime.
Se però nei suddetti film, c'erano o un ritorno in patria o un girovagare in una vivida memoria storica, nel film del cinese si verifica un'autentica diaspora di persone e sentimenti. Non è più possibile tornare al passato, nè fisicamente nè mentalmente. In questo struggente dramma dello sradicamento, il passato è una terra straniera in tutti i sensi. Il giovane Dollar, cinese totalmente "australianizzato", che diventa protagonista nell'ultimo terzo di film, quello ambientato in un 2025 non così lontano dal nostro 2016 globalizzato, vorrebbe tornare da una madre che non ha quasi mai conosciuto e di cui ha solo sbiadite reminiscenze: ma c'è qualcosa che lo blocca, sia nel corpo sia nello spirito, come una forza che gli impedisce di prendere l'aereo per la Shanghai o anche solo di focalizzare gli sporadici ricordi d'infanzia. Questa forza non è altro che il Tempo, che tutto allontana e fa sbiadire.
" Al di là delle montagne" è anzitutto una malinconica rapsodia sullo scorrere degli anni, sul mutare del contesti, sugli sconvolgimenti geografici ed emotivi, su come la politica e l'economia siano in grado di cambiare le persone. Fra i suoi tanti pregi, c'è quello di saper rendere con grande sapienza i rispettivi sentimenti di passato, presente e futuro, che valgono certo per la Cina in transizione verso la modernità, ma che possiedono al contempo un valore universale. Le speranze e l'euforia della giovinezza, riflesse in una Cina ancora sostanzialmente rurale, paesana e festosa, si infrangono nell'amarezza dell'età adulta, per poi dissolversi col ricambio generazionale in un limbo tecnocratico che pare cancellare ogni orizzonte. I personaggi si passano il testimone, si eclissano, ricompaiono profondamente mutati, quasi irriconoscibili.
Ci sono pagine di straordinaria immediatezza espressiva, alternate ad altre più enigmatiche, metaforiche o apparentemente fuori registro (come il ricorrere delle esplosioni e del fuoco, o l'aeroplanino che si sfracella al suolo, o certi dialoghi): ma sono gli inevitabili effetti collaterali dell'approccio con una cultura molto distante dalla nostra, come quella cinese. Certe finezze linguistiche, gestuali e semantiche si perdono inevitabilmente. Altri momenti appaiono invece didascalici e telefonati, come la serata in discoteca o l'utilizzo di una canzone pop locale o Zhang che pensa di poter "comprare" l'amore di Tao regalandole un CD; e si fatica a comprendere alcune scelte, come il formato ristretto della prima parte (50 minuti prima dei titoli di testa, come già in Apichatpong Weerasethakul) o l'abbandono precoce del personaggio di Liangzi.
Nettamente più frequenti le sequenze riuscite: la folla che segue uno spettacolo folkloristico, muovendosi come a formare una specie di onda (immagine evocativa di molti significati, incluso il nome della protagonista, Tao); un dialogo "politico" fra il ricco Zhang e il povero Liangzi, perfetto per taglio delle inquadrature, economia dei dialoghi, direzione attoriale; il ritorno alla baracca di Liangzi con l'invito al matrimonio di Tao ancora intatto dopo anni; la foto dei due sposini, con la gigantografia dell'Opera House di Sidney, falsamente premonitrice. E la morte del padre di Tao, il suo funerale, con la donna che tenta disperatamente e rabbiosamente di dare forza ad un esilissimo legame di sangue fra il defunto genitore e lo sconosciuto figlio. O ancora, Tao oramai adulta e divorziata, senza più l'ispirazione e l'entusiasmo per comporre e cantare canzoni: la vediamo incrociare triste il suo passato, una fanfara di giovani spensierati in abiti tradizionali.
Coraggiosa e geniale l'ultima parte, con alcune scelte che possono sembrare forzate, ma che si rivelano invece dense di implicazioni simboliche: Dollar e suo padre Zhang non parlano la stessa lingua e hanno bisogno di un'interprete per capirsi; l'interprete è una donna matura che stabilirà una relazione con il giovane Dollar, condividendone alcune parti di vissuto (anche lei è una cinese occidentalizzata, sradicata, con una storia di divorzio alle spalle); è evidente che, pur in una dimensione passionale (bellissima la scena d'intimità, dolente, tenera e sincera come raramente capita), la donna diventa la figura materna che è sempre mancata a Dollar, il quale diventa a sua volta suo figlio putativo. Entrambi vorrebbero ricongiungersi alle loro radici: non ce la faranno.
Jia Zhangke colpisce nel segno anche sul piano della messinscena, con un utilizzo intelligente del fuori-campo (da brividi la voce off di Dollar che chiama la madre nel finale: un oceano e una vita intera collegate da un un nome che evoca l'idea dell'onda, momento di grande poesia), personaggi che escono e rientrano nell'inquadratura, una perfetta composizione del quadro (mai formalistica, sempre significativa), magnifici campi lunghi in cui si palesa la stonatura delle moderne costruzioni con lo scenario naturale (come già in "Still life"). Pregevole anche il ricorso ciclico ad intermezzi deformati sul piano figurativo, quasi stranianti; così come è circolare anche l'utilizzo di un sound-score melanconico, che detta i tempi di una mesta ballata in cui, ad ogni strofa, qualcosa si perde per sempre.
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