Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Durante la terribile persecuzione dei cristiani nel Giappone del ’600, due giovani gesuiti portoghesi si offrono di andare a scoprire cosa è successo al loro padre spirituale, che si dice abbia abiurato anni prima ma di cui mancano notizie certe. Scorsese torna a riflettere sui paradossi della fede dopo L’ultima tentazione di Cristo: lo fa con un film di grande spessore e dalle molte sfaccettature. C’è una prima parte incentrata su una religione clandestina, catacombale, vissuta insieme ai poveri abitanti dei villaggi che rischiano la morte. Dopo la cattura di padre Rodrigues assistiamo agli espedienti messi in atto dai suoi aguzzini per fiaccarne il morale (qui si poteva prosciugare qualcosa, perché la ripetitività degli interrogatori smorza un po’ la tensione; oltretutto l’inquisitore parla con una vocetta fessa che lo fa sembrare ridicolo), viviamo con lui l’esperienza del silenzio di Dio (titolo potentemente drammatico) e i suoi dubbi sull’utilità del proprio sacrificio. Abiurare o no diventa un falso problema: ecco allora il personaggio di Kichijiro, che ha tradito mille volte e dopo ogni volta si è confessato (mi ricorda il Chilone di Quo vadis?); ecco padre Ferreira spiegare che la fede inculcata nei giapponesi è un grottesco travisamento del vero cristianesimo; ecco lo stesso padre Rodrigues esortare i fedeli a calpestare l’immagine di Cristo, perché è solo un gesto formale che non intacca la sostanza. L’orgoglio di essere nel giusto, l’ansia di affrontare il martirio quasi per inerzia cedono il passo a una silenziosa resistenza nel foro interno: siamo così nella parte finale, quella in cui la voce narrante del protagonista durante la sua nuova vita tace e viene sostituita da quella di un viaggiatore olandese; così noi spettatori non possiamo conoscere i suoi pensieri, e l’ultima inquadratura arriva non come una rivelazione sorprendente ma come la conferma di ciò che sospettavamo.
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