Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
La cosa che sorprende maggiormente di quest’ultima fatica del vecchio Marty è l’umiltà. Chi si aspettava uno Scorsese eccessivo, visionario, virulento, turbolento, sanguinolento rimarrà deluso. Chi si attendeva il montaggio forsennato tipico dei suoi film, farà fatica a credere che in cabina di editing ci sia ancora Thelma Schoonmaker, la stessa donna che ha impresso ai capolavori del regista italo-americano quel caratteristico ritmo sincopato. “Silence” è forse l’opera stilisticamente più posata e pacata di tutta la carriera, oramai quasi cinquantennale, di Scorsese. In un atto di rinuncia (cristiana?) alle tentazioni che la macchina-cinema può offrire (specialmente col digitale), il regista abiura alla sua estetica iperrealista e opta per una forma spoglia, austera, francescana.
Questo approccio, serio e privo di svolazzi, fa scomparire l’ego dell’autore, il suo lato più superficiale, esaltandone per contro l’aspetto più profondo, più filosofico, quello che è sempre stato alla base del suo cinema: lo studio dei valori cristiani messi in discussione dai tormenti della carne. “Silence” è un lungo ed articolato discorso su alcuni temi cardine del Cristianesimo (il rapporto fra umano e divino, il proselitismo, il martirio, il “silenzio di Dio” di bergmaniana memoria etc…), che si permette di sacrificare il potenziale spettacolare, per consentire allo spettatore di sviluppare una sua personale riflessione, alla luce dei variegati percorsi dialettici che si vengono a creare nel corso del film. A mano a mano che l’opera procede, ci si accorge che le vicende storiche del Cristianesimo sono solo il punto di partenza da cui si diramano discorsi sui massimi sistemi, ahimè sempre più rari nel cinema contemporaneo.
E così si scopre che “Silence” è un film sull’ossessione, sulla dedizione ad una causa, sull’incorruttibilità minacciata dalla debolezza morale, sull’irrazionalismo di ogni fede come di ogni amore o passione, ma anche sull’intolleranza del Potere, sulla difficoltà nel far attecchire determinate culture in contesti sfavorevoli, sugli equivoci scaturiti dalle differenze di linguaggio, sul valore dell’immagine sacra e dei suoi feticci, sulla presunzione di chi ritiene che la Verità sia una sola e valga per tutti, sull’amara sconfitta del proselitismo che si traduce in rinuncia alla propria fede, spoliazione della propria identità, negazione della propria storia. Non c’è una sola chiave interpretativa, in un film che può essere letto contemporaneamente come trattato teologico, allegoria politica/sociologica/antropologica, riflessione estetica/linguistica.
Scorsese empatizza finchè può col protagonista (Padre Rodrigues), ma strada facendo i dubbi che assalgono quest’ultimo si scoprono essere anche i suoi: fino a che punto è legittima l’ossessione del Padre gesuita (e della Chiesa che egli serve e rappresenta) di catechizzare un popolo che non ha forse gli strumenti culturali per comprendere i concetti cristiani nella loro autenticità? Che senso ha ostinarsi a piantare radici in una palude? E’ chiaro che in questo film gli oppressori sono i giapponesi e gli oppressi i cristiani: è chiaro che, in un’ottica democratica moderna, gli inquisitori non hanno nessun diritto di perseguitare i cristiani convertiti. Ma è anche vero che le teorie dissuasive dei giapponesi paiono più sagge e condivisibili rispetto alla cieca testardaggine di Padre Rodrigues, che arriva al punto di sacrificare la vita dei discepoli per se stesso (e non per Dio, come invece lui ritiene fanaticamente: un Dio che è solo un’immagine ricorrente, una sua proiezione mentale che alla fine lo implora di calpestarlo).
In un film premeditatamente privo di scene madri, di virtuosismi, forse fin troppo avaro di immagini potenti, si evidenziano comunque l’incipit epico dal sapore kurosawano, un bellissimo discorso a base di metafore fra il Padre e l’inquisitore, la scena della decapitazione (unica concessione ad un sensazionalismo comunque non gratuito) significativamente ripresa dalla soggettiva di Rodrigues prigioniero, il canto del kirishitan convertito prima di morire annegato, l’asettico resoconto del diario dell’olandese che setta il tono di una parte finale di freddezza e impotenza bressoniane. E’ un film così ricco, intellettualmente stimolante e umanamente coinvolgente da far dimenticare la debolezza del comparto attoriale (il clamoroso miscasting di Adam Driver, nei panni del gesuita tutto d’un pezzo Padre Garupe, a cui si assomma un Andrew Garfield non all’altezza della situazione nei panni di Rodrigues), fatto salvo un notevole, corrucciato, angustiato Liam Neason, nel ruolo fondamentale e doloroso dell’apostata Ferreira.
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