Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Sullo sfondo di paesaggi meravigliosi, il nuovo film di Martin Scorsese invita alla riflessione su molteplici temi e dà vita a un prodotto ben fatto, ma con alcuni difetti.
Silence. Il titolo compare sullo schermo nella sala cinematografica e sembra ordinare al silenzio. State in silenzio per ascoltare meglio. State in silenzio per cercare nella mutezza della divinità ciò che questa vuole rivelarvi. State in silenzio per non farvi sfuggire tutti i temi trattati: l’Occidente che, in un modo o nell’altro, sente l’urgenza di civilizzare; la reale o meno possibilità di assimilazione di una cultura o religione; le difficoltà che anche un credente convinto affronta quando la sua fede viene messa alla prova.
Una nave che solca l’oceano. Comincia così la serie di splendide inquadrature di Silence. Accompagnate dal silenzio che annullando uno dei sensi, potenzia gli altri e in particolare quello della vista. La fotografia di Rodrigo Prieto ci invita nuovamente al silenzio. Un silenzio ammirativo delle bellezze della Natura, la quale qui si fa entità divina e sfondo delle sofferenze umane (nel senso di sofferte dall’uomo e da esso causate).
I soldi sono garanzia di un prodotto migliore? Penso che in qualche caso, e cioè quando si sanno usare, sì. L’investimento monetario, in questi casi, si mescola con quello emotivo, passionale, artistico e il prodotto che viene realizzato è inevitabilmente buono.
Per fare un buon film devono però concorrere diversi elementi. Uno fra questi, e per me uno dei più essenziali, è la recitazione. Andrew Garfield e Adam Driver incarnano in questo film la recitazione per eccellenza, quella che non ti fa dire «quanto sono bravi a recitare», ma rende difficile separare attore e personaggio. Lo hanno mangiato, il personaggio, diventando con esso un’unica cosa.
Non ho notato la stessa bravura in Liam Nieson, il quale sembra aver valutato la parte e non averla considerata di tale importanza da investirci più di tanto.
Finora ho preso e commentato varie parti del film, senza però dare un giudizio generale. Questo perché mi viene difficile farlo. L’opera di Scorsese è un film che, visto per la prima volta, nel momento in cui scorre sullo schermo, pensi al grande capolavoro. Il primissimo giudizio è quindi assolutamente positivo. Poi si arriva alla fine e dopo ancora esci dalla sala, torni a casa, passa un giorno e le sensazioni cambiano. Le nuove sensazioni non sono negative, ma non sono più così positive. Non sono positive, senza alcun «ma», insomma.
Sembra ci sia “un qualcosa in più” che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Un autocompiacimento che è forse lecito, ma che stona. La consapevolezza smaccata di aver creato un bellissimo prodotto che però lo fa scendere un po’ più in basso in classifica (in una mia ipotetica).
Il finale invece fin da subito, fin da dentro quella sala, fin dalla sua proiezione, mi ha lasciata con l’amaro in bocca. Sembra sbagliato. Sembra che il montatore abbia bevuto un po’ troppo la sera prima di mettere insieme il finale e che abbia utilizzato tutte le scene girate piuttosto che fare una cernita. Il risultato è quindi un finale ripetitivo, lungo e superfluo.
Per concludere, troppo ci sarebbe da dire di questo film. Tanti spunti di riflessione. Tante angolazioni da cui guardarlo. Troppi temi da sviscerare. Bisognerebbe vederlo altre dieci volte per poterne fare una giusta analisi. L’unica cosa che posso fare dunque è consigliarvi la visione per trarne una vostra personale idea.
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